Paolo Battaglia la Terra Borgese: cercasi esperti in matematica

Il quesito è: se anziché andare a votare per rifiutare la legge “del premier Matteo Renzi” che prolunga la vita agli impianti offshore di Eni ed Edison, avessimo dovuto recarci a votare per proporre noi elettori una legge che prolungasse la vita agli impianti offshore di Eni ed Edison, il risultato sarebbe stato lo stesso? E se sì, lo si può affermare con esattezza scientifica? Non mi intendo di numeri e perciò mi sorge la domanda che ritengo importante per la democrazia del nostro Paese, e faccio appello a chiunque si intende di matematica per darvi risposta.

Dal 1974, anno in cui si svolse il primo referendum abrogativo (quello sul divorzio, conclusosi con la conferma della legge), in Italia vi è stato un uso crescente dei referendum, soprattutto per iniziativa del movimento radicale. Tra i più importanti, vanno ricordati quelli sull’aborto (1981); sulla «scala mobile» (cioè sull’adeguamento automatico dei salari all’inflazione, 1985); sul nucleare (1987); sul sistema elettorale (1991, 1993). Alcuni referendum sono falliti per il mancato raggiungimento del quorum (è il caso di quello del 2005 sulla fecondazione assistita o di quello sulla legge elettorale del 2009). Per quanto concerne i referendum confermativi, in Italia se ne sono tenuti due: il primo (2001), che ha confermato la riforma del titolo V della Costituzione; il secondo (2006), che ha invece respinto la riforma della seconda parte della Costituzione. I referendum abrogativi sulla privatizzazione dell’acqua, sul legittimo impedimento e sul nucleare, tenutisi il 12 e 13 giugno 2011, sono stati referendum a grande partecipazione popolare: i sì ai quattro quesiti, inoltre, hanno ottenuto una media del 95%, costituendo anche l’espressione della volontà della maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto in Italia. Il referendum abrogativo viene fatto rientrare dalla dottrina maggioritaria tra le fonti del diritto e, più precisamente, tra gli atti equiparati alla legge. A prima vista, potrebbe sembrare paradossale che un atto con il quale si cancella qualcosa dall’ordinamento giuridico sia considerato una fonte del diritto, posto che le fonti del diritto hanno il carattere dell’innovatività; tuttavia, questa difficoltà scompare se solo si tiene presente l’osservazione di V. Crisafulli, secondo cui abrogare è sempre un modo di disporre diversamente. Quanto sopra recita la Treccani alla voce Referendum. L’espressione fonti del diritto è una espressione metaforica con la quale si intendono tutti gli atti o fatti capaci di innovare un ordinamento giuridico. Fatta la premessa è chiaro e sancito che il Referendum rientra, o dovrebbe rientrare, tra gli istituti di partecipazione diretta dei cittadini alla democrazia. Sono però gli elettori che devono andare a votare perché il referendum sia valido. Un obiettivo, come avverte La Repubblica, che è stato raggiunto sempre più raramente nei referendum: siamo lontani da quell’87% del referendum del divorzio del 1974. Dal 1997 (con l’eccezione del 2011, per il voto sull’acqua pubblica) il quorum non è stato più raggiunto.  Fino al 1993 si è sempre votato su due giornate, dal ’93 al 2000 solo su un giorno, poi di nuovo su due. Per la consultazione sulle trivelle si è tornati a una sola data.