Giuseppe e Martina Giangrande: due esempi ordinariamente normali

Maddalena Robustelli

Il brigadiere Giuseppe Giangrande vittima dell’attentatore che, proprio nel giorno del giuramento del nuovo governo, con vari colpi di pistola ha riversato il suo malessere psichico su due rappresentanti delle forze dell’ordine, ieri è stato dimesso dal Policlinico Umberto I  di Roma per essere trasferito presso un centro di riabilitazione fisica di Imola. Pochi giorni fa è stata sciolta dai sanitari la prognosi sulle condizioni di salute del carabiniere, che aveva iniziato a manifestare parziali segni di ripresa. Nei giorni immediatamente successivi all’attentato, i media nazionali di sovente accendevano le luci dei propri riflettori sui bollettini medici diramati dalla direzione sanitaria del nosocomio romano. La circostanza, per la quale quotidianamente un servizio televisivo si occupava di rendicontare sullo stato clinico del paziente, mi ha indotto a svolgere una conseguente riflessione: perché tutta questa attenzione sul maresciallo Giangrande? Se a tale quesito se ne aggiunge uno analogo, concernente le frequenti interviste alla giovane figlia Martina, recentemente colpita anche dalla morte della madre, una considerazione mi sorge spontanea.  Ritengo che tanto clamore non sia dovuto ad morbosità mediatica, o ad  un interesse generalizzato a questa  famiglia, che la figlia ama definire “esercito sgangherato”, ma piuttosto alla considerazione che la ripresa delle condizioni di salute della vittima dell’attentato, forse, metaforicamente sono collegati alla speranza che l’intero Paese si riprenda da una crisi che non  è solo economica e finanziaria, ma di valori morali e di etica istituzionale, di speranze individuali e di aspettative collettive. Anche l’Italia è “sgangherata”, per usare le parole di Martina, e mi piacerebbe pensare che questa giovane donna, con la sua risolutezza e voglia di rimboccarsi le maniche in un momento così difficile della propria vita, rappresenti l’intera comunità nazionale che deve trovare in sé stessa le giuste motivazioni per risalire la china. Una figlia così coraggiosamente reattiva di fronte ad una situazione a dir poco tragica, un padre così straordinariamente capace di uscire dalla prognosi riservata, assommano in sé le più ottimistiche speranze di un’Italia migliore, per continuare a credere, e Dio sa quanto ne abbiamo bisogno, che dal buio più cupo si possa iniziare a risalire verso tenui spiragli di luce. Illuminati, noi tutti, da un particolare convincimento: la coscienza  della necessità di farci  carico almeno idealmente, laddove non fosse possibile diversamente, dei bisogni degli altri deve conseguentemente trasfondersi nella determinazione ad impegnarsi meglio nell’essere protagonisti attivi nella costruzione di una società più partecipata, più solidale e più giusta.