La speranza come sentimento e come virtù (Divagazioni in margine all’enciclica Spe Salvi)

Fulvio Sguerso

Anzitutto una constatazione: il tema della speranza, malgrado le apparenze, è più che mai attuale, e non sarà certo per caso che la seconda enciclica di Benedetto XVI, dopo quella dedicata all’amore di Dio, tratti proprio questo tema (naturalmente nei termini profetici della visione neotestamentaria) in un momento storico in cui le grandi speranze secolari, dopo il fallimento delle ideologie sette-ottocentesche, sembrano ormai definitivamente sepolte sotto le macerie di due guerre mondiali, vanificate dagli orrori di Auschwitz, di Hiroshima e dei gulag sovietici. Altro che liberté, egalité, fraternité, sintesi delle idee illuministe e roussoviane sfociate nelle carneficine della Rivoluzione giacobina e delle guerre napoleoniche! Altro che “tutti gli uomini divengano fratelli / sotto la morbida ala della gioia”  come canta il coro nella Nona Sinfonia di Beethoven! Altro che il  Proletari di tutto il mondo unitevi e il non avete da perdere che le vostre catene del Manifesto di Marx ed Engels! Se poi si pensa che anche le speranze di concordia e di pace universale che erano fiorite dopo la fine della guerra fredda e la caduta del muro di Berlino sono state quasi subito gelate dalle guerre del Golfo, dalle nuove guerre balcaniche e dagli attacchi terroristici culminati con il crollo delle Torri Gemelle proprio all’inizio del nuovo millennio, pare quasi impossibile continuare a sperare in un mondo riconciliato e in una umanità finalmente liberata dal bisogno e dalla paura.  E se volgiamo lo sguardo al cortile di casa, alla nostra amata (?) patria sempre più umiliata e offesa dalle persistenti ”emergenze”nazionali (criminalità organizzata, connubi politico-mafiosi, gestioni affaristico-familiari della cosa pubblica, sistemi clientelari per le assunzioni e gli incarichi negli enti locali o statali, corruzione diffusa nei quartieri bassi, medi e alti,  smaltimento rifiuti, ecc.)   le parole più adatte al tempo presente sembrerebbero quelle di colore oscuro che si leggono sulla porta dell’Inferno dantesco: lasciate ogni speranza, voi ch’entrate! Eppure se venisse meno ogni speranza, verrebbe meno anche la stessa vita umana: cadrebbero le motivazioni coscienti o inconsce che, a torto o a ragione, ci spingono a lavorare, a progettare, a combattere le nostre piccole o grandi battaglie per migliorare il nostro futuro e quello dei nostri cari. Una vita senza speranza è quindi una contraddizione in termini. Fin qui il senso comune. Ma è questo il senso proprio anche della speranza cristiana? “Spe salvi facti sumus – nella speranza siamo stati salvati, dice san Paolo ai Romani e anche a noi”. Così comincia l’enciclica, che si rivolge in primis, oltre che ovviamente ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, “alle persone consacrate e a tutti i fedeli laici”; tuttavia, questa lettera sulla speranza cristiana, parla a tutti gli uomini, credenti e non credenti, laici religiosi e laici atei, cattolici e protestanti, musulmani e buddisti, nichilisti e materialisti, per il semplice fatto che tutti gli uomini sperano in qualcosa: “Sperare è atto dell’animo che riunisce gli uomini, ove li disunisca vuol dire che non ci sono che le apparenze della speranza; e che in realtà, se è permesso il bisticcio, è la disperazione che spera di sperare” (A. Moravia). Ma che cosa distingue la speranza cristiana da quella comune? “La redenzione, la salvezza, secondo la fede cristiana, non è un semplice dato di fatto. La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino”. Dunque la speranza cristiana è, anzitutto, un dono, un dono attuale, che vale per il presente e per il futuro perché vale in eterno, pur essendo connesso con il nostro essere nel tempo. Che cosa si può ancora sperare, infatti, una volta giunti nell’eternità? Là le dimensioni del tempo sono abolite, e dove non c’è più né passato, né presente, né futuro non c’è più nemmeno speranza :Là pas d’espérance” (Rimbaud, Une saison en enfer). Tempo e speranza sono quindi strettamente legati uno all’altra; nondimeno, mentre per il senso comune la speranza è vissuta come vago desiderio, come incertezza riguardo ad avvenimenti futuri che sono, appunto, solo sperati e quindi nient’affatto certi, per il cristiano la speranza riguarda una realtà già presente, sicura, indistruttibile, ma non ancora completamente rivelata: il regno di Dio. Per mezzo della fede il cristiano comincia a vivere in questo regno già qui sulla terra, perché crede nella promessa del Vangelo; tuttavia sa che non si tratta di un regno di questo mondo soggetto a corruzione e decadenza, ma del regno invisibile e spirituale in cui, come scrive Benedetto XVI: “la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità”. Si può mai concepire una speranza più grande di questa? Non vale forse la pena di attendere con perseveranza “il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più”? Non si tratta però di un’attesa passiva e inerte: scrive san Paolo, ancora ai Romani:” Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità”. La speranza cristiana, dunque, non sarebbe tale se non fosse, da un lato, innestata nella fede, e dall’altro non fosse perseverante nella carità. Quindi tutto può essere meno che soltanto soggettiva e individuale: non è un vago sentimento ma una virtù che richiede forza e coraggio pur nella letizia dell’attesa della vita piena ed eterna. Questo significa anche, tuttavia, che la nostra vita mortale non è non sarà mai né piena né eterna. D’altronde, quando mai una parte, per quanto si sforzi, potrà diventare il tutto? Come poi sia effettivamente la vita oltre la vita non potremo saperlo altrimenti che morendo.

3 pensieri su “La speranza come sentimento e come virtù (Divagazioni in margine all’enciclica Spe Salvi)

  1. Ecco un argomento ben approfondito. La speranza. Bravo Dottor Sguerso, non ne potevo più di morti resuscitati, diavoli, inferni ed altre belle prospettive. La sua preparazione da luce a questo giornale in cui finalmente cominciano ad essere più le luci che le ombre.

  2. Si, professore, ha dato voce dotta a molti dei pensieri che ognuno di noi ha in forma non verbale o non documentata. Capisco molto bene la decadence delle idee illuministe che pure rappresentano una pietra miliare nel nosttro senso critico odierno, passi Benedetto XVI che fa il suo mestiere come i suoi predecessori, passi tutto, ma San Paolo lo lasci fuori. Come fa un misogino i…e a parlare di “speranza” quando nelle sue belle letterine in realtà la toglie con i suoi giudizi tout court? Se proprio dobbiamo tirare in ballo qualcuno riferiamoci magari a Frate Francesco, che ogni tanto scriveva qualcosina per lodare, non si sa bene, cosa. Almeno era una persona coerente con la dottrina.
    La leggo sempre volentieri, spesso non oltre le righe.
    Con i miei saluti, Joseph.

  3. Caro Marco, ti ringrazio per la stima e per l’attenzione con cui mi leggi. Quanto alla “luce” ho i miei dubbi: come ho detto in altra occasione, più che di illuminare cerco continuamente di essere illuminato da qualcuno, e sto ancora e sempre cercando nella speranza (per rimanere in tema)di non cercare invano…

    Riguardo alle complesse e “dotte” questioni poste dall’altro mio attento e acuto lettore Joseph, per rispondere adeguatamente dovrei scrivere un altro articolo (se non addirittura un libro!). Cominciamo dall’illuminismo: la sua crisi è dovuta al fatto che molte delle speranze e delle attese suscitate dai “lumi” della ragione umana – affrancatasi dal “principio d’autorità” – e dal progredire delle conoscenze scientifiche sono andate deluse, prima fra tutte quella della fratellanza e della felice convivenza fra individui e popoli diversi.Certo, non tutte le colpe sono attribuibili agli illuministi (come pretendevano i “restauratori” reazionari del connubio tra il trono e l’altare), ma è anche certo che il mero “progresso” , di per sé, non significa anche “pace parpetua” e “felicità” (cfr. “Dialettica dell’illuminismo” di Th. W. Adorno e M. Horkheimer del 1947). Questo non toglie che avesse ragione Kant nell’auspicare l’uscita dell’umanità dalla condizione di minorità e di sudditanza ai “poteri forti” in cui si trovava allora (e in cui si trova ancora, in tutti i campi!). Quanto alla misoginia e sessuofobia di san Paolo non mancano gli studi e le analisi psicoanalitiche – ottimo per esempio il saggio di William G. Cole su “Il sesso nel cristianesimo e nella psicoanalisi” , Astrolabio -; ma nel mio articolo si trattava della “speranza cristiana” nell’ottica di Benedetto XVI, e qui san Paolo è fondamentale, basti pensare alla gerarchia dei carismi e a 1Cor 13, 13: “Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità…”, cioè quelle che, per i cristiani, sono le tre virtù teologali, senza le quali non c’è salvezza!
    Un saluto e un ringraziamento da
    Fulvio Sguerso

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