Il garantismo e i doppi pesi

Angelo Cennamo

Dopo aver inviato in parlamento un faldone di circa 400 cartelle, a corredo di una richiesta di perquisizione per la quale sarebbero bastate poche pagine, i pm milanesi, a meno di una settimana, sfornano un altro plico di 280 pagine. Le intercettazioni sul caso Ruby così si moltiplicano, e i giornali possono pubblicare altro materiale scottante sulle notti hard del premier. In una delle conversazioni più piccanti, il consigliere regionale Nicole Minetti, meglio conosciuta come : “igienista dentale” ( come se un paramedico, tra l’altro laureato, non possa essere degno di varcare i palazzi della politica), sfogandosi con un’amica, dice che “Lui” è un “pezzo di m…”, che “ha il c……flaccido”, e che “gli ha fatto comodo mandarla alla Regione Lombardia, così paga lo Stato”.  Dice pure che “Lui….se la fa sotto per Ruby, e che la prossima volta che andrà a trovarlo lo farà con l’avvocato”. In un’altra intercettazione, una tizia racconta alla sua interlocutrice di aver visto il premier ed Emilio Fede toccare i seni nudi di alcune ragazze, nella sala del cosiddetto “bunga bunga”. E’ evidente come il tenore, il linguaggio ed i contenuti di queste telefonate siano squallidi e rappresentativi di una realtà oscena. Ma collegare le stesse intercettazioni – dalle cui trascrizioni non è possibile evincere nè il contesto discorsivo più ampio, trattandosi di stralci, tanto meno il tono della conversazione, che non si può escludere possa essere stato scherzoso o giocoso – alla presunzione di colpevolezza del premier in ordine ai reati per i quali egli è indagato, sarebbe una forzatura inaccettabile. Destinata solo ad alimentare il clamore mediatico ed il pubblico ludibrio dei protagonisti, che non sono ancora finiti, e che forse non ci finiranno mai, in un regolare e giusto processo. Il sospetto allora che taluni osservatori della vicenda ( Bagnasco in primis) hanno sollevato circa la prolissità anomala della documentazione, prodotta “a rate” dalla procura di Milano, unitamente alla rapida divulgazione della stessa, possa mal celare il doppio fine di anticipare sui media il dibattimento giudiziario, con conseguente sputtanamento del presidente del consiglio, può apparire fondato. Allo stesso modo, non si può rilevare la differente linea investigativa seguita da altri pm, quelli romani, che in questi mesi stanno indagando il presidente della camera Gianfranco Fini per il reato di truffa aggravata, per i noti fatti di Montecarlo. Nel caso di Fini, è singolare come il magistrato inquirente abbia preso la decisione ( sia chiaro, tecnicamente legittima) di iscrivere l’indagato nell’apposito registro lo stesso giorno in cui egli ha chiesto al Gip l’archiviazione dell’inchiesta. Così facendo, quel pm ha protetto, più o meno volutamente, ma senza dubbio con meritevole avvedutezza, la terza carica dello Stato dal clamore giornalistico e dall’imbarazzo che una simile notizia avrebbe generato nell’opinione pubblica. Altrettanto singolare è risultata la scelta, da parte dello stesso pm, di non ritenere proficua, per la risoluzione del caso, l’opportunità di interrogare il presidente della camera e suo cognato, Giancarlo Tulliani – il quale, stando ai riscontri di queste ore, sarebbe non solo il vero proprietario dell’appartamento monegasco, ma anche il titolare delle società Timara e Printeps. Ecco allora come, nello stesso Paese e da parte dello stesso Ordine giudiziario, due ipotesi di reato possono essere perseguite in modo completamente differente, con metodi e procedure non sovrapponibili, ma che in ragione della loro diversità non possono far discutere l’opinione pubblica.