La giustizia che non c’è

Angelo Cennamo

Tra le riforme strutturali che il nostro Paese attende da diversi anni dalla sua classe politica spicca quella dell’intero comparto della giustizia. La materia è ostica e gli interventi che si richiedono meritano un’attenta riflessione più che soluzioni emozionali legate al breve periodo ed alla contingenza di interessi personali e lobbystici. Sui mali ed i ritardi della giustizia italiana è stato detto e scritto di tutto, non mi dilungherò perciò sulle solite questioni trite e ritrite. Quando si pensa alla mala giustizia, la prima cosa che viene in mente al cittadino comune sono i ritardi nei processi. Anni ed anni per attendere una sentenza, talvolta persi a causa di cavilli tecnici strumentali e pretestuosi, di conseguenza incomprensibili per gli utenti dei tribunali, consolati a fatica dai loro avvocati, tra le prime vittime di un sistema macchinoso ed inefficiente. Per le ragioni che ho appena espresso, occuparsi di giustizia, per qualunque ministro, diventa un’impresa ardua, se non disperata. Lo è stato per i guardasigilli dei governi di sinistra, ma lo è ancora di più per quelli di destra, i quali, nolenti o volenti, devono fare i conti con la grande matassa giudiziaria che avvolge tuttora il nostro presidente del consiglio. Angelino Alfano è un politico brillante e navigato, nonostante la giovane età, ma dal suo insediamento non sembra aver ancora imboccato la strada giusta per dare una risposta organica e significativa ad un settore che ormai langue da tutte le parti. Pressato da un lato dalle difficoltà oggettive del suo dicastero, e dall’altro dalle vicende personali del premier, il ministro non è ancora riuscito a dare delle risposte concrete a chi attende una svolta nell’operato della magistratura e nell’applicazione dei codici. E’ dal 1994, anno della sua discesa in campo, che Silvio Berlusconi ha promesso agli elettori la separazione delle carriere dei magistrati al fine di realizzare appieno quel giusto processo che in Italia stenta a decollare, nonostante la vigenza, va detto, di un sistema alquanto garantista e giuridicamente evoluto. La promessa, dicevo, non è stata ancora mantenuta, in compenso l’attuale guardasigilli si è adoperato, tra le altre cose, in una contestata riforma del processo civile che vede al centro della sua proposizione un istituto che in Italia non ha mai trovato larghi consensi : la conciliazione. Molte cause civili, stabilisce la riforma Alfano, non possono essere iniziate se non si provvede preliminarmente ad una mediazione stragiudiziale da tenersi dinanzi ad organismi a ciò preordinati. Il tentativo di conciliazione dovrebbe servire da filtro ai processi, limitando il numero delle pendenze che ingolfano gli uffici giudiziari. Alfano crede di aver trovato l’uovo di Colombo, non si è accorto però che la conciliazione è già prevista dal codice di procedura civile in sede giudiziaria, e che pertanto del nuovo istituto non ne avevamo affatto bisogno. Oltretutto la mediazione che propone la nuova riforma rischia di sottrarre lavoro agli avvocati, alimentando clientele tra altre figure professionali poco compatibili con la risoluzione delle controversie da mediare. Ma è soprattutto nel settore penale che Alfano rischia di fallire nel suo mandato. In quel comparto l’esecutivo ha inanellato una serie di insuccessi che non ha precedenti. Il Lodo che prende il nome dello stesso ministro e che avrebbe dovuto garantire la sospensione dei processi a carico del premier è stato bocciato dalla corte costituzionale perchè predisposto con legge ordinaria. Alla conseguente legge sul legittimo impedimento, sempre riferita alla posizione del premier, potrebbe toccare la stessa sorte, in quanto il legittimo impedimento, così come identificato nelle nuove norme, non verrebbe di volta in volta valutato dal magistrato ma prefigurato e tipizzato dal legislatore. Con la stessa finalità si è varato il ddl sul c.d. processo breve, che al suo interno contiene una norma transitoria molto discussa; la sua eventuale attuazione, infatti, cancellerebbe di colpo migliaia di processi, tra i quali spicca, guarda caso, quello a carico del presidente del consiglio per la nota vicenda Mills. Ma i guasti non sono finiti. La legge che dovrebbe rivedere l’uso delle intercettazioni telefoniche, anzichè prevedere una giusta e doverosa colpevolizzazione e repressione della fuga di notizie, vera carenza dell’attuale impianto normativo, finisce per limitare uno degli strumenti di indagine più efficaci messi a disposizione delle procure, e colpire gli operatori professionali meno responsabili della violazione del segreto istruttorio : i giornalisti. E’ vero, mancano tre anni alla fine della legislatura, ma se questi sono i primi segnali, c’è poco da sperare