La questione dei diritti fondamentali dell’uomo

Francesco Casale

Il XX secolo è stato caratterizzato da una grande ambivalenza: da un lato infatti l’umanità ha conosciuto i lager, i gulag, le foibe, pulizie etniche e genocidi di massa; il nazismo e il comunismo, totalitarismi che hanno determinato la più ampia e sistematica violazione dei diritti fondamentali dell’uomo;dall’altro è stato il secolo che ha dato maggior impulso, sul piano culturale giuridico e politico, allo sviluppo di una particolare attenzione, mai fino ad ora coltivata, al tema dei diritti umani e della loro tutela.. Anche se molto c’è ancora da fare è indubbio che i diritti umani appaiono ormai, con grande evidenza, come vero assoluto etico del nostro tempo e un indizio della possibilità di una nuova fase dell’unificazione spirituale dell’umanità grazie alla quale, per usare una celebre espressione kantiana,”la violazione del diritto avvenuta in un punto della terra possa essere avvertita in tutti i punti”. Il XXI secolo tuttavia, apertosi all’insegna del gravissimo attentato alle Twin Towers di New York (11 settembre 2001), si presente con nuove aporie e contraddizioni proprio intorno al tema del fondamento dei diritti umani. Le difficoltà maggiori vengono da due concezioni anche opposte e lontane tra loro ma i cui esiti, disgraziatamente, coincidono sfociando alla fine in esito nichilista: da un lato il fondamentalismo islamico; dall’altro il mai sopito laicismo delle società secolaristiche occidentali. Da un lato integralismo religioso, dall’altro relativismo etico. Da una parte una nuova ideologia a sfondo politico-religioso basata su una concezione, la sharja, di disuguaglianza tra il muslim e “l’infedele”, tra l’uomo e la donna, che è una costante minaccia per la pace nel mondo, che nega il carattere universale dei diritti umani ritenendoli il prodotto della cultura occidentale, “dei crociati”( in questo senso vi è un pregiudizio verso i diritti umani!); che persegue un disegno tattico-politico di servirsi dei principi della democrazia che esso nega per la causa della jhiad (la tesi di M.C. Allam sull’Europa fabbrica di aspiranti shahjd/uomini-bomba), e verso cui urge una seria presa di coscienza culturale, politica e giuridica sulla compatibilità del nostro ordinamento giuridico con la specificità del terrorismo islamico suicida-omicida che nega alla radice i diritti umani a cominciare dal fondamentale diritto alla vita.

Urge altresì un recupero chiaro e consapevole della identità culturale dei popoli delle democrazie occidentali condizione necessaria ed indispensabile per qualunque tipo di confronto. Appare perciò in tutta la sua valenza, agli occhi scevri da nostalgie laiciste, l’importanza più volte invano sottolineata dall’indimenticabile e compianto pontefice Giovanni Paolo II, di richiamare esplicitamente nella Costituzione Europea le radici cristiane concetto che aveva ben compreso un laico come Benedetto Croce quando spiegava “perché non possiamo non dirci cristiani”.Dall’altra il laicismo con la sua deriva relativista, soggettivista, con le sue interne contraddizioni ( esaltazione e ricerca del benessere e cultura della morte/ esaltazione della privacy e insieme svilimento del pudore e “dittatura della trasparenza” / un umanesimo che equipara ed esalta presunti diritti degli animali (animalismo) e un positivismo giuridico che si affanna a ricercare una giustizia che se non rivolta ad un orizzonte trascendente è puro legalismo soggetto alle variabili oscillazioni politiche. Due esempi su tutti possono rendere l’idea della sciagurata convergenza dell’estremismo islamico e del laicismo: la cultura della morte produce oggi la jhad (che è di natura aggressiva e non reattiva), gli uomini bomba (shaid), come nel secolo scorso l’ateismo marxista produceva l’odio e la lotta di classe: allora come ora quante vite innocenti spezzate e sacrificate sull’altare di tali ideologie della morte! L’anti-life mentality produce l’aborto e l’eutanasia come supposti diritti e conquiste di progresso umano; e, come è stato acutamente osservato (L. Vivolo Cannavò), queste opposte ideologie si propongono entrambi l’umiliazione del corpo femminile da una parte mutilato (infibulazione) e imprigionato (burqua) dall’altro ostentatamente usato ed esibito fino a rendere non più percepibili le ragioni della fondamentale dignità umana.. Allora il punto centrale della mia riflessione è costituito dalla convinzione che deve esistere e si deve trovare un comune denominatore (Giovanni Paolo II l’ha definito “sorta di grammatica universale”) per tutti gli uomini in base al quale poter riconoscere i diritti fondamentali non negoziabili e quindi potersi riconoscere reciprocamente come titolari di tali diritti. Vaclav Havel, già membro di “Carta 77”, durante il regime comunista, poi presidente della Repubblica Cecoslovacca, nel discorso a Strasburgo nel giugno del 1995, in occasione dell’inaugurazione del Palazzo dei diritti dell’uomo, ebbe giustamente ad osservare: “Se concepiamo i diritti dell’uomo come un semplice prodotto del contratto sociale, la risposta è chiara: non possiamo chiedere il loro rispetto a chi non ha accettato tale contratto o non ha partecipato alla sua creazione… Ma se ammettiamo che il rispetto dei diritti dell’uomo, in quanto rivendicazione o imperativo politico, non è che un’espressione politica d’impegni morali che nell’esperienza umana generale sono ancorati nell’assoluto, lo scetticismo relativista non ha più ragione d’essere. Nulla è ancora raggiunto, ma almeno si apre una strada: l’universalità dei dritti dell’uomo si può difendere con successo, se si cercano le sue vere radici spirituali universali”. Allora occorre superare la visione riduttiva del diritto positivo, che si esprime solo in termini di legalità quando invece la coscienza umana avverte di tutta evidenza il profondo ed umano senso della giustizia come istanza autenticamente superiore alla legalità intuibile alla luce della recta ratio, come ius quia iustum e non quia iussum . Tale istanza emerge ad esempio sul tema, oggi molto sentito nel nostro Paese, e abbastanza ricorrente della certezza della pena che non significa solo (e sarebbe già tanto!) l’effettiva applicazione una volta legittimamente irrogata dall’autorità giudiziaria, ma la giustezza della pena stessa nel significato del ripristino (per quanto possibile) dell’ordine violato e di mezzo di espiazione per chi quell’ordine ha violato (quia peccatum) e insieme (e dopo, aggiungerei) mezzo educazione al fine di un reinserimento sociale (ne peccetur). Si tratta in altre parole di recuperare la migliore tradizione giusnaturalistica che si salda con la cultura e la tradizione cristiana del continente europeo e che rende possibile l’accettazione dei diritti umani non come prodotto culturale ma come istanza della ragione creata universale. Ed è quanto lucidamente sottolinea il Prof. Giuseppe Acocella nella prefazione del mio libro: “ Percorrere, come ha fatto con documentata vigilanza Francesco Casale, l’evoluzione storica del rapporto tra Cristianesimo e diritti umani significa anche privilegiare una risposta che riconosce la necessità del fondamento ontologico – e dunque non negoziabile – dei diritti fondamentali dell’uomo e della loro riconoscibilità, optando decisamente per una antropologia dai caratteri definiti alla quale affidare il carattere di universalità.