Storia vera e vissuta di pedofilia negli anni ’50- terza parte

Aldo Bianchini

Terza parte-Già da qualche anno, prima del ’56, vivevo con mio zio Antonio (insegnante elementare) e con mia nonna Brigida; ero ritornato abbastanza sereno dopo quell’esperienza brutale del corso di preparazione all’esame di ammissione. Quasi tutte le sere andavo a cinema nelle due sale allora disponibili; da Michelino film di avventura, da Domenico film storici; insomma ce n’era per quasi tutti i gusti. Un giorno, subito dopo ferragosto, mentre ero a tavola per il pranzo con mia nonna e mio zio, fui richiamato brutalmente alla realtà. Con voce ferma e decisa mio zio (che era stato per cinque anni il mio maestro elementare) in maniera lapidaria mi chiese: “Insomma, Aldo, tutto bene con il prof Caio, proprio tutto bene ?”. Un brivido di freddo, nonostante il forte caldo, mi salì su per la schiena; rimasi di ghiaccio e risposi frettolosamente di sì. Mio zio zittì e passò ad altri argomenti; notai che ogni tanto mi scrutava attentamente, per carpire qualche mia reazione emotiva o semplicemente somatica. Cercai di non muovere neppure un muscolo facciale; pensai così di aver superato la prova. Il giorno dopo mio zio, subito dopo pranzo, mi chiamò nel suo studio, mi fece sedere davanti a lui e guardandomi fisso negli occhi disse: “Credo che ieri mi hai mentito. Possibile che tu, in tanti mesi, non ti sei accorto di nulla e non hai mai visto se il prof. Caio, anche per scherzo, accarezzava le bambine? Su, dimmi la verità!” La parola scherzo mi diede la possibilità di vuotare il sacco; confermai che avevo assistito a quando per scherzo il prof. palpava le bambine; poi, piano piano, dissi tutta la verità; descrissi accuratamente le scene di violenza verbale e fisica che tutti avevamo subito, anche dell’unica volta in cui avevo beccato cento bacchettate ed ero rientrato a casa con le mani gonfie, senza dire nulla. Raccontai della vestaglia, delle pantofole e del righello e….anche della stanza adiacente alla sala del corso. Mio zio rimase immobile e senza parole per qualche minuto, apparentemente freddo. Poi lentamente si alzò e si avvicinò alla vetrinetta della libreria, dalla quale prelevò la sua bottiglietta di grappa e ne bevve un piccolo sorso (come spesso faceva dopo pranzo). Si girò verso di me ed iniziò una delle sue classiche e produttive paternali; in buona sostanza mi fece capire che i pericoli e le insidie per noi ragazzini erano tanti e che avrei dovuto confidare  molto prima a lui il mio segreto e che male avevo fatto a tenere tutto dentro di me. Sempre lentamente prelevò la giacca estiva e uscì; prima di chiudere il portone, mi disse di non muovermi, perché sarebbe ritornato di lì a breve e che voleva trovarmi in casa. Quando la porta si richiuse alle spalle di mio zio, avvertii tutto il peso di quello che avevo confessato ed al tempo stesso mi sentii liberato da quell’ossessionante segreto. Avevo dieci anni, pochi per capire, troppi per non capire. I minuti cominciarono a scorrere inesorabili nell’attesa del ritorno di mio zio. Passarono circa quattr’ ore e intorno alle diciannove sentii delle voci e dei passi avvicinarsi verso casa; mi sedetti subito alla scrivania dello studio, facendo finta di leggere la prima pagina del quotidiano “Paese Sera”,  che ogni giorno arrivava per posta. Lo studio all’improvviso si affollò; insieme a mio zio Antonio, c’erano anche altri tre maestri che ben conoscevo: Michele, Francesco e Pasquale. Si sedettero intorno alla scrivania ed io, ad un cenno di mio zio, mi allontanai ed uscii dallo studio. Li sentivo parlottare; mi fermai dietro la porta dello studio per origliare; non sentivo bene, ma riuscii a capire che i quattro, nelle settimane precedenti, avevano raccolto più di qualche indiscrezione sulle perversioni del prof. Caio, indiscrezioni provenienti anche dall’Istituto delle orfanelle e che bisognava drasticamente intervenire prima che accadesse l’irreparabile, prima cioè che le illazioni divenissero più pubbliche e i numerosi genitori agissero a loro modo. Occorreva la prova regina che solo io avrei potuto fornire; solo io avevo parlato confessando a mio zio quello che avevo visto. “Aldo, vieni immediatamente da me !!” tuonò la voce fermissima di mio zio; ed era una voce che non ammetteva repliche o tentennamenti. Bussai ed entrai. Per mettermi a mio agio mi fecero sedere al posto di mio zio dietro la scrivania; fu una mossa intelligente. Del resto i quattro (tutti insegnanti) erano gli abituali frequentatori del salotto culturale del paese, cioè di Piazza Capomuro, e ben sapevano come prendere con dolce fermezza un ragazzino di dieci anni per fargli dire tutta la verità. Ero come un fiume in piena, parlai a lungo di Giada, Paolo, Fiamma, Mirella, Erika, Vanda e di tutto quello che avevo visto e vissuto drammaticamente in quei quattro mesi e mezzo della durata del corso. L’incredulità stampata sui loro volti piano piano svanì e nei loro lineamenti notai farsi strada una durezza ed una decisione che non avevo mai notato prima di allora. Michele esclamò: “E cosa sarà successo negli anni precedenti?”. Mi dissero di stare tranquillo e di  non rivelare mai a nessuno quanto avevo loro raccontato; al da farsi avrebbero provveduto immediatamente. Mi fecero uscire con loro e li accompagnai fino in piazza Capomuro, dove il buon gelato di “zio Cristoforo” (il famoso “bacio” al cioccolato) sciolse ogni mia sofferenza interiore e mi restituì rapidamente alla serenità propria di un ragazzino di dieci anni. Il giorno successivo tutto il paese era in fermento; sentii anche mia madre parlare con mia nonna e con altre mamme di Via San Leone; tutti si chiedevano come mai il professor Caio si fosse allontanato nottetempo dalla propria abitazione di Via Marinella ed avesse lasciato un biglietto di saluto soltanto per il suo vicino di casa, senza alcuna spiegazione e senza indicare la destinazione di così repentina partenza. Capii tutto e nel silenzio del mio animo compresi come quei quattro insegnanti, senza processi, senza sociologi, psichiatri o psicologi e senza scomode testimonianze o rivoluzioni popolari, avevano risolto il problema alla radice, senza scalfire minimamente la fragile psicologia di tutti noi bambini. Non ho mai avuto la possibilità di chiederlo direttamente a loro e neppure a mio zio, credo però che la stessa sera della mia audizione si fossero recati a casa di Caio, costringendolo a lasciare immediatamente il paese, prima che qualcosa di irreparabile potesse accadere. Dopo tre anni da quei fatti, la mia famiglia si trasferì lontano da Muro Lucano; raramente ho incontrato qualche mio compagno di classe. Del prof. non si è mai saputo più nulla, come se fosse letteralmente scomparso dalla faccia della terra, così come non si è mai saputo nulla su cosa potesse essere accaduto negli anni precedenti e nell’Istituto delle orfanelle. Quel corso, quella casa in Via Marinella, quei compagni sono rimasti, comunque, stampati  nella mia memoria. Alcuni anni dopo il 23 novembre dell’80 appresi con gioia che la “casa degli orrori” era stata rasa al suolo dal terremoto e mai più ricostruita.

 

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