Che fare?

Aurelio Di Matteo

È indubbio che nel Paese ci sia una domanda di opposizione. Ed altrettanto certo che la risposta non possa essere quella che stanno dando i “partiti” che attualmente non sono al Governo. Nel migliore dei casi, restano chiusi nel fortino delle proposte che hanno cercato – o soltanto enunciato – in questi due decenni, durante i quali si sono alternati alla gestione del potere più che alla governance dei problemi della collettività. Per il resto è chiacchiericcio da cortile o da riunione condominiale. Non meno inutile l’atteggiamento assunto dagli intellettuali e dai filosofi, tra le televisive comparsate frivole e di “consenso”, il carrierismo accademico o l’astrattezza della purezza teoretica. E per carità di patria non citiamo i giornali con i loro inequivocabili riferimenti alle “quote azionarie”.

L’opposizione che i cittadini cercano non è quella che negli ultimi decenni si è attestata su Europa sì, Europa no; euro si, euro no; patrimoniale si, patrimoniale no, e così di seguito. Di qui la svolta elettorale ed il successo del Movimento 5Stelle.

Opposizione e proposta? Il coraggio dell’utopia? Forse entrambe. Di certo una domanda di nuove risposte e di un’alternativa ai criteri di concepire i rapporti strutturali della società. E ovviamente l’invito è rivolto a chi ritiene che una società strutturata dal neo-liberismo e dal capitale finanziario, non sia il migliore e tanto meno l’unico dei mondi possibili. La sinistra? Poco importa la denominazione, importa chi abbia consapevolezza del “noi” e non dell’”io”.

Allora la domanda va riproposta con riferimento alla scelta numericamente più alta fatta dagli elettori nella tornata elettorale del 4 marzo.

Il Movimento 5Stelle quando finirà di essere il terminale dei sogni e delle speranze di chi non ritiene che il neo-liberismo economico possa essere l’unica concezione dello sviluppo e, quindi, il presupposto sul quale strutturare le articolazioni della società?

Certo il suo riferimento ideologico – dopo la presunta morte delle ideologie ogni partito, soprattutto se Movimento, ha pur sempre una ispirazione ideologica – non è il pensiero marxiano del quale non coglie né accoglie l’analisi strutturale dei fondamenti del Capitalismo, oggi neo-capitalismo, e dei riflessi sui rapporti economici e sociali e sull’organizzazione lavorativa. Tanto meno della natura stessa del lavoro che, oggi, con il neo-capitalismo non può essere identificato in relazione all’”operaio” o ad una classe qualificata come centrale nei processi di valorizzazione. La dimensione immateriale, intellettuale, cooperativa e la rete, come tessuto di ogni attività produttiva, sono diventati gli elementi centrali della valorizzazione produttiva. La forza-lavoro si è dunque radicalmente modificata e con essa la stessa natura del lavoro che, per così dire, è diventata la dimensione stessa della singolarità, quale espressione non tanto dello sfruttamento della persona, con riferimento al rapporto lavoro-plusvalore; ma dall’essere esso stesso, in quanto tale, l’alienazione dell’uomo. Il neo-liberismo, che accompagna il neo-capitalismo nella dimensione finanziaria, ha fatto del lavoro l’elemento sacro, non solo dei rapporti umani ma della dimensione sociale della singolarità. Anche il banale, diffuso e apparentemente innocuo “rimbocchiamoci le maniche” fa parte della strutturale condizione della competitività; tanto che nel capitalismo avanzato non esiste il tempo del non-lavoro, e la libertà del neo-liberalismo diventa la costrizione del rendimento e della produttività. In tale dimensione valoriale e sacrale, che informa e totalizza la singolarità, anche il sempre più breve periodo della vacanza estiva diventa iperattività, per riempire la totalità breve delle ferie. Al tempo della “persona” non appartiene più il non-lavoro come libertà e dimensione del sé. Tutto ciò è la conseguenza della nuova modalità e della nuova struttura del lavoro. La sua immaterialità, sempre più diffusa, che ha interessato anche l’operaio dell’industria con l’automazione estesa a tutto il sistema dei servizi produttivi, ha condotto il suo rapporto con il capitale ad estreme modificazioni.

E così il capitale finanziario ha egemonizzato ogni tipologia di rapporto, diventando capitale direttamente produttivo ed ha consolidato il suo potere trasformando profondamente, dal decorso secolo, gli organismi territoriali e le strutture istituzionali nell’assetto globale degli Stati e delle nazioni. Gli Stati sono stati riorganizzati secondo modalità fiscali e, nei momenti di crisi, ciò che conta è la governance del debito pubblico. La connessa globalizzazione del capitale finanziario e dei mercati finanziari ha comportato che il controllo delle possibilità debitorie dello Stato passasse dal potere pubblico alle strutture che organizzano il privato. Di conseguenza l’amministrazione interna dello Stato e la dinamica del lavoro sono passate sotto il controllo dei “mercati” globali. Quale la conseguenza più immediata? L’impossibilità di un intervento dall’interno di qualsiasi elemento di mediazione e di qualunque struttura contrattuale. Gli stessi sindacati sono diventati organismi irrilevanti e autoreferenziali, strutture burocratiche di auto sussistenza. È, insomma, la crisi dei modelli sociali neo-liberisti e socialdemocratici, in tutte le diverse accezioni riformiste che abbiano o possano eventualmente assumere.

Se la realtà è questa, allora la prima cosa “da fare” è prendere coscienza di questi nuovi rapporti attraverso analisi che, muovendo dagli originari principi marxiani – non marxisti – interpretino le nuove soggettività che lo sviluppo capitalistico ha prodotto in sostituzione delle “classi” definite, ormai inesistenti. Insomma guardare alle trasformazioni antropologiche, alle mutazioni della forza-lavoro e quindi alla nuova dialettica – meglio sarebbe dire alla non-dialettica – che il neo capitalismo ha prodotto tra forza-lavoro immateriale e riappropriazione del capitale-fisso.

Prendere coscienza che il neo-capitalismo ha messo in crisi lo Stato democratico, fondato sul diritto, rappresentativo e parlamentare ed ha espropriato la politica del governo dei processi socio-economici;

assumere come dato e presupposto di analisi, che il neo-capitalismo non è compatibile con una democrazia egualitaria e progressiva e che il denaro ha sopravanzato il lavoro, in una con la tecnica che ha sopravanzato la vita. La crisi delle sinistre di certo è derivata dal non avere compreso o non voluto comprendere questa inconciliabilità tra capitale finanziario e ridistribuzione del plus-valore, che, attraverso le istituzioni di mediazione, lo Stato di diritto e le democrazie rappresentative trasformavano almeno in welfare.

Se non si comincia dall’analisi di queste trasformazioni socio-economiche ed antropologiche, saremo sempre qui, al chiacchiericcio tra sovranismo e populismo, tra spread e decimali del disavanzo; mentre l’ISTAT ci fornisce il numero crescente dei milioni di poveri e i partiti si accapigliano se sia tutta colpa dei migranti o dei Macron e delle Merkel di turno, che nulla contano a fronte della totalizzazione del capitale finanziario. È questa trasformazione del capitale che resta il cuore del problema dinanzi alle nuove soggettività, alla sempre più numerosa “moltitudine” di lavoratori immateriali da esso prodotta e “imprigionata”, ad una massa che ha perduto ogni autodeterminazione e diventata “intransitiva” nel rapporto con il capitale e, quindi, non si esprime più come classe secondo la classica contrapposizione “dialettica” della tradizione del pensiero socialista marxiano. “Fare politica”, oggi, significa riproporre in modalità innovativa i temi del potere e del contropotere, dell’organizzazione e della lotta dei “lavoratori immateriali”, soprattutto del potere costituente e dei suoi protagonisti; insomma ricominciare a pensare le forme di realizzazione del mai superato principio fondamentale del pensiero marxiano e della sinistra, il principio ontologico del “comune”. Utopia? E sia pure! È stata sempre il presupposto dei grandi cambiamenti e delle svolte epocali.

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