L’angolo della lettura: “L’uomo di Kiev” di Bernard Malamud

Angelo Cennamo

Tutte le volte che finisco di leggere un libro di Bernard Malamud mi viene da pensare: questo è il suo romanzo migliore. E’ accaduto con Il Commesso – forse il libro più apprezzato, in Italia rilanciato qualche anno fa da una devota citazione di Marco Missiroli in Atti osceni in luogo privato – ma anche con Il Barile Magico e Le Vite di Dubin, tra le ultime pubblicazioni. “Nei romanzi di Malamud l’America non appare mai un’opportunità di riscatto‎. Uno dei suoi temi più frequentiè la marginalità” scrive Alessandro Piperno nella prefazione de L’Uomo di Kiev – romanzo del 1966, vincitore del premio Pulitzer e del National Book Award. E’ questo il tratto che distingue Malamud dagli altri tre grandi scrittori ebrei americani: Saul Bellow, Philip Roth e Paul Auster, più spavaldi e ottimisti nell’inseguire il sogno americano. I personaggi di Malamud sembrano nati per soffrire, sono perseguitati dalla sfortuna e dalle ingiustizie. E sono quasi sempre degli ebrei, perché gli ebrei, diceva, “li conosco bene, e poi perché sono  l’incarnazione perfetta del melodramma”L’Uomo di Kiev si ispira a una vicenda realmente accaduta nei primi anni del Novecento. La storia di Mendel Beilis, ebreo ucraino accusato ingiustamente dalle autorità zariste di un infanticidio  avvenuto alle porte di Kiev. Nella fiction, Beilis è Yakov Bok. “In abiti larghi e berretto a visiera, era un uomo longilineo e nervoso con le orecchie grandi, le mani dure, chiazzate, chiazzate, il dorso ampio…Il suo naso a volte era ebreo e a volte no…La moglie lo ha lasciato per uno sporco forestiero”. Con un carro scassato regalatogli dal suocero e un cavallo “brocco”, Yakov si trasferisce a Kiev per iniziare una nuova vita, per  cercare un lavoro e farsi un’istruzioneSi guadagna da vivere come tuttofare: “Viveva nel cuore del settore ebraico del quartiere Podol, in una casa popolare formicolante d’inquilini, pavesata di materassi che prendevano aria e di abiti cenciosi che asciugavano sopra un cortile stipato di bottegucce di legno dove tutti erano indaffarati e nessuno guadagnava. Campavano”. Un giorno Yakov salva un vecchio caduto nella neve. Sembrerebbe un colpo di fortuna perché l’uomo, che è molto facoltoso, decide di ripagarlo assumendolo come contabile  nella sua fabbrica di mattoni. Ma fin da subito quell’incontro si rivelerà una terribile sciagura che condurrà il tuttofare alla distruzione. Il suo datore di lavoro infatti è un accanito antisemita e vive in un quartiere dove gli ebrei sono considerati i peggiori nemici dell’umanità. Tra molti dubbi, Yakov cerca di resistere dando false generalità e negando le sue origini ebraiche. Un giorno però accade l’irreparabile: in una grotta vicino alla fabbrica dove lavora, viene trovato un ragazzo di dodici anni assassinato. Era seduto con le mani legate dietro la schiena, era stato ucciso a pugnalate e morto dissanguato “probabilmente a scopi rituali“. Yakov viene arrestato. Confessa subito di essere ebreo ma si proclama innocente “Sia clemente, signor giudice. Ho avuto così poco nella vita“. La deposizione del suo datore di lavoro è un duro atto di accusa: ” Non è una persona onesta: per essere precisi, è un impostore…non l’avrei mai assunto se avessi saputo che apparteneva alla Nazione ebraica“. Durante la prigionia Yakov viene istigato a confessare il delitto in cambio di un lasciapassare per l’Europa; l’unico spiraglio, forse, per ritrovare la libertà. Ma lui non si fida. Bibikov, proprio il magistrato che crede alla sua innocenza, viene arrestato e ucciso misteriosamente in una cella vicina. Yakov capisce di non avere scampo. Lo hanno preso perché è ebreo: “Non c’era una ragione, c’era soltanto un complotto contro un ebreo, un ebreo qualsiasi, e lui era l’uomo scelto casualmente come capro espiatorio. L’avrebbero processato perché era stata formulata un’accusa, non c’era bisogno di altre ragioni. Nascere ebreo significava essere vulnerabili alla storia e ai suoi errori più spaventosi“. Per certi versi, quella di Yakov è la stessa condanna che la sorte infligge a Morris Bober, il protagonista de Il Commesso, l’umile bottegaio di Brooklyn al quale gli affari vanno male, e che è costretto a subire le angherie del suo giovane garzone Frank Alpine. Come Yakov Bok, anche Morris Bober attribuisce la malasorte che lo perseguita alla fede ebraica. Entrambi provano a resistere alle avversità e alle ingiustizie arroccandosi nella forza d’animo e nella rettitudine, ma non basterà a salvarli dalla rovina.