Guerra e pace, quale destino per l’uomo contemporaneo?

Raffaele Ciccone

Ci si da un gran da fare a parlare di pace oggi, e forse proprio perché il mondo non è mai stato tanto in guerra. Certo, il cittadino europeo potrà sentirsi al sicuro, dato che non si sente sparare un colpo in Europa ormai da decenni – fatta eccezione per quelli che ancora esplodono in Ucraina, di cui però già ci giunge un’eco ovattata; l’attenzione dei media si sta già orientando altrove. Ricordiamoci però che il mondo è grande oltre i confini dell’Europa, e che in questo mondo ci sono attualmente più di 20 conflitti in atto, con più di 26 nazioni coinvolte e un numero ancora maggiore di milizie più o meno regolari. E ben pochi di questi conflitti arrivano a meritare gli onori della cronaca. Se l’umanità è ancora tanto disposta a usare la guerra come mezzo di risoluzione dei contrasti, allora si fa strada l’inquietante considerazione che, forse, la tendenza alla guerra è una parte della nostra natura di cui difficilmente riusciremo a fare a meno in futuro. Oppure, essa è il terribile presupposto per raggiungere un giorno, stanchi di tanta atrocità, una condizione di equilibrio stabile tra i popoli basato sulla ricerca di altre vie per risolvere le dispute. Una pace perpetua, per usare le parole del filosofo tedesco Immanuel Kant (1724 – 1804), autore dell’omonimo saggio Per la pace perpetua (1795) in cui vengono delineati i tratti di un progetto filosofico che per molti sembrerà utopico, ma che è più razionale e lucido di quanto si pensi. La scelta del titolo cela un’ironia sottile, se si pensa che era ispirata all’insegna di un’osteria olandese sulla quale era anche dipinto un cimitero. Nelle prime righe del saggio Kant si domanda se quest’ironia «non valga per gli uomini in generale, o in particolare per i capi di Stato mai sazi di guerra, o magari soltanto per i filosofi che cullano quel dolce sogno». Ma essa esprime in realtà una considerazione importante: l’uomo è sempre votato a fare la guerra, anche se mantiene il potere di decidere se progredire verso una condizione migliore. Un progresso imprescindibile, in mancanza del quale c’è solo la prospettiva di uno stato di guerra costante. Ma in cosa consisterebbe questa pace perpetua? Non certo in uno stato perenne di quiete, di totale assenza di dispute, di competizione, che finirebbe soltanto col paralizzare proprio quel progresso culturale, morale, politico che l’uomo cerca; si tratterebbe piuttosto di una pace come «composizione istituzionalizzata dei conflitti», un contesto di norme giuridiche democraticamente riconosciute e condivise che sappia trovare strategie risolutive diverse dalla guerra. Il progetto che emerge dal saggio è quello di una futura federazione repubblicana di Stati basata sul riconoscimento di una giustizia internazionale, composta da leggi e principi edificati da tutti i componenti e riconosciute all’unanimità, ma che rispetti al contempo l’autonomia dei singoli Stati membri. In questo progetto, secondo l’autore, il raggiungimento della pace, meta necessaria per l’uomo, dovrebbe conciliarsi con la sua naturale tendenza al conflitto e al sospetto, incanalando le energie e le aspirazioni degli uomini verso obiettivi comuni. Più che una meta utopica, quella della pace perpetua è un’idea guida: una condizione da raggiungere, che tenga però conto della natura umana e dei suoi limiti. In fondo, osserverà il cittadino europeo, Kant descrive un po’ ciò che è oggi l’Unione Europea. Ma è meglio usare cautela; l’Unione è nata come una comunità internazionale con obiettivi economici, e non ha perduto nulla della sua originale vocazione. E i rapporti economici non per forza sono i migliori per costruire la pace.