Il teologo cattolico Meinrad Limbeck e la negazione degli angeli

don Marcello Stanzione

 Non solo nella teologia protestante liberale ma purtroppo anche nella teologia cattolica dopo il Concilio Vaticano II si è infiltrato diabolicamente il dubbio sulla reale esistenza degli angeli che poi  sconfina fino nella negazione dell’esistenza degli angeli, come succede in John Quinlan, che li definisce invece come “espressioni simboliche di verità più profonde”, e che decreta che “l’evangelo, la buona novella, l’ε’υαγγέλιον non sembra aver bisogno di ’άγγελος ‘messaggero’ di luce, o di tenebre che sia. In Cristo, Dio, colui che porta la buona novella e la buona novella stessa sono una sola cosa”. Il teologo cattolico Herbert Haag e i suoi collaboratori sono su tale stessa linea, declassando gli angeli a immagini che aiutarono Israele “ad esprimere dei concetti non altrimenti esprimibili” visto che il popolo ebraico non era incline al pensiero astratto. Infatti proprio  un collaboratore di Haag:  il teologo cattolico tedesco Meinrad Limbeckche tratta dell’argomento “ Angeli” dal punto di vista della Scrittura,  giunge alla conclusione che gli angeli non sono altro che degli ostacoli nel rapporto tra l’uomo e Dio. Dopo un lungo elenco in cui cita i passi in cui l’Antico e il Nuovo Testamento presentano la figura e le funzioni degli angeli, osserva che, malgrado l’abbondanza di documentazione portata, “agli inizi l’Antico Testamento non ha inteso assolutamente sostenere la loro esistenza in tutti quei passi nei quali, secondo la nostra conoscenza, si parla di angeli”]. Per chiarificare tale constatazione adduce l’argomento dei cherubini e dei serafini. Nella descrizione dei cherubini custodi dell’arca che ne fa la Scrittura, vengono fusi insieme due elementi provenienti da altri popoli: da un lato essi ripresentano la figura dei karibi accadici, dèi subordinati alle divinità maggiori, loro assistenti rappresentati in un primo momento come uomini, poi muniti di ali e con il contrassegno del leone, dell’aquila e del toro; dall’altro lato essi ricordano i geni egizi che stavano a protezione delle urne mortuarie. E’ stato naturale che Israele, vedendo i cherubini nel tempio, pensasse che la realtà di Dio fosse quella di essere circondato e sostenuto da tali esseri celesti. Discorso simile vale per i cherubini che vengono posti a oriente del giardino di Eden: non sono altro che sentinelle già conosciute nelle concezioni religiose precedenti e esterne ad Israele, che avevano il compito di vigilare la porta del regno dei morti, o il santuario, o l’albero della vita. Anche la questione dei serafini porta allo stesso risultato: Isaia al capitolo 6 li pone come facenti parte del consiglio del trono di Dio, con le funzioni di servirlo e di glorificarlo, ma in altri passi (14,29 e 30,6) il profeta usa la parola seraph per indicare il demone in forma di serpente che abita nel deserto. In Nm 21,8 il serpente di bronzo fatto da Mosè nel deserto è chiamato serafino: tale simbolo si trovava nel tempio sino al regno di Ezechia, ed è per tale ragione che Isaia lo eleva da essere demoniaco a essere celeste che sta al cospetto di Dio.“Quando l’Antico Testamento parla di cherubini e serafini, non intende per sé pronunciarsi sulla possibile esistenza di esseri celesti, […] ma si limita a ricordare questi cherubini e serafini solo perché, incontrandoli nell’ambiente pagano come figure del ‘mondo celeste’, pronte ad aiutare o incutere terrore, non poteva non inserire queste raffigurazioni anche nella propria concezione del mondo di Dio”. L’influenza pagana si riconosce anche nel concetto di Signore degli eserciti, in cui l’idea che Dio presiedesse un’assemblea divina composta di angeli si riferisce a una visione già nota nell’antico oriente: da una parte la corte celeste era sorta in analogia a quella terrestre, e dall’altra era stata necessaria per organizzare le varie divinità minori attorno al dio supremo. Anche la figura dell’angelo del Signore è semplicemente un nume delle tradizioni pre-jahvistiche e pre-elohistiche, poi assunte nel patrimonio narrativo di Israele che operò il cambiamento di identità dell’essere soprannaturale. “Molti passi dunque che, secondo le idee comuni, parlano degli angeli di Dio, in fondo riflettono soltanto una interpretazione pagana del mondo, che Israele dovette contestare ma dalla quale fu anche condizionata nella sua concezione di Dio e del mondo divino”.Il grande sviluppo dell’angelologia giudaica, proprio del periodo post-esilico, provoca un progressivo allontanamento di Dio dall’uomo: ora sono gli angeli a interpretare le visioni dei profeti, a trattare con l’uomo e per la sua salvezza. Così la comunione con Dio diventa più difficile, o addirittura impossibile a causa dell’interferenza angelica, cosicché “chi intendeva vivere la vita di Dio, lo poteva fare solo in comunione con gli angeli. Perciò l’uomo ora doveva essere degno della comunione con gli angeli prima di osare di giungere a Dio”[.Venendo al Nuovo Testamento, Limbeck dichiara che Gesù, gli apostoli e gli evangelisti erano immersi pienamente nella cultura religiosa in cui erano cresciuti, e che quindi, per poter rendere comprensibile il loro messaggio, non potevano prescindere dai dati culturali e di fede che erano da tutti ritenuti. I testi neotestamentari che parlano degli angeli sono fortemente influenzati dalla narrativa apocalittica tardo-giudaica, in cui gli angeli sono i testimoni della pienezza dei tempi e annunciatori del fatto che Gesù provenisse dalla sfera celeste. Il  teologo Limbeck termina la sua analisi ritenendo che l’esistenza degli angeli non si può né dimostrare con l’esegesi biblica, né sostenere in modo vincolante richiamandosi alla liturgia ecclesiale, e conclude con una preoccupazione: “non potrebbe darsi che, credendo negli angeli, come i pii giudei, perdiamo proprio quella immediatezza con Dio, per la quale Gesù ha voluto liberare il suo popolo, noi uomini?”