Monica Michelotti: arte leggera come presupposto di arte democratica

Maria Pina Cirillo

  Dedita soprattutto alla sperimentazione di percorsi iconici, Monica Michelotti, artista pontremolese che da molti anni vive a Carrara dove opera anche quale docente dell’Accademia, vive l’arte innanzitutto come comunicazione e come necessità di utilizzare quelli che sono gli strumenti, i mezzi comunicativi dei tempi in cui viviamo. Facendo uso soprattutto di materiali comuni: plexiglass, carta, cartone, cartoncini, fili,    costruisce un’arte leggera, quasi incorporea, non nei contenuti  che anzi rimandano a discorsi decisamente importanti, ma visivamente, per la levità con cui si pone.  Le sue opere, che pure possono essere definite in diversi modi per il ricco e profondo simbolismo  di cui sono permeate possono,  di certo, essere definite anche sculture da viaggio. Partendo dal presupposto che l’opera d’arte, oltre e forse addirittura prima che  vivere nei musei  dovrebbe con-vivere nelle case, insieme agli oggetti di ogni giorno, per trasmetterci i suoi messaggi ed arricchirci culturalmente, spiritualmente ed emozionalmente, l’artista crea, dunque, pezzi artistici a misura delle nostre abitazioni che, tanto più piccole e tanto più piene ed ingombre di quelle del passato, sarebbero soffocate e direi quasi sopraffatte dalla maggior parte delle sculture tradizionali che, ancorché belle, interessanti o stimolanti, risulterebbero nella prevalenza dei casi, eccessivamente presenti visivamente, vanificando così una parte del loro messaggio artistico.  Molti dei lavori della Michelotti si presentano così come arte da viaggio, arte, cioè, idonea  ad essere trasportata per seguirci nelle nostre peregrinazioni di moderni Ulisse  alla ricerca di noi stessi, con la stessa semplicità, ma anche in maniera così radicalmente indispensabile, delle tante altre cose che affollano le nostre valigie. Ed è dalla necessità interiore di nutrirci di bellezza, libertà e creatività, da una visione utopica in cui un oggetto d’arte può e deve essere fruito naturalmente e quotidianamente per educare al bello, al vero,  al giusto, che prende il via la produzione, a metà tra il gioco fantastico e il pensiero critico, di dittici, libri/scultura che possono assumere le forme più disparate (visi, cuori, mani, piedi, labbra, orecchie), che si possono aprire e chiudere ed in cui, alla due pagine mobili,  fa da contraltare la cerniera che, in quanto tale, è appunto  fissa.

Nasce proprio da ciò una prima considerazione, il primo e forse più importante messaggio dell’artista: la necessità di esplorare in profondità il rapporto  tra la nostra interiorità, le convinzioni, le ideologie, i pensieri più intimi, l’etica che cerchiamo di mantenere  sostanzialmente integra, appunto fissa quanto più è possibile in nome delle cose in cui crediamo, e  l’evoluzione incessante di un’altra parte del nostro essere che deriva dalla continua e proficua  interazione tra noi e gli altri. Queste opere, come noi stessi,  sono, dunque, interattive, entrano in comunicazione con ciò che siamo in maniera profonda, stabiliscono rapporti con l’ambiente circostante, si fanno modificare ed a loro volta modificano i propri fruitori; ognuno può farne l’uso che vuole: si possono tenere chiuse, indicando una non disponibilità all’apertura ed al  dialogo, ma possono  anche essere aperte,  in maniera variabile, al rapporto con gli altri. Ed in tal caso, lo spazio tra le due pagine dischiuse è riempito dai pensieri, dalle emozioni di chi vi si confronta  in maniera libera e creativa. Queste produzioni artistiche, peraltro adatte ad essere utilizzate e vissute come sculture singole ma anche ad essere combinate tra loro secondo le nostre necessità interiori e/o estetiche fino a diventare vere e proprie  istallazione, possono essere continuamente modificate sia in rapporto alle diverse parti dell’opera stessa che con continui nuovi accostamenti tra opere diverse, quasi a voler trasmettere in maniera diretta ed immediata  la pluralità di significato di tutto quanto ci circonda e la ricchezza comunicativa di ogni più piccolo ed umile oggetto. E certamente la sostanziale predilezione di Monica per il corpo umano in tutte le sue parti non è estranea a questa complessità di messaggi, alla dialettica ricca e contraddittoria che costituisce l’essenza stessa della comunicazione artistica, perché il corpo umano è il vaso delle nostre conoscenze, delle nostre emozioni, delle nostre sensazioni.

Ed è, forse, in considerazione di ciò che, in alcune lingue antiche, si utilizzava la stessa parola per indicare vaso ma anche libro, anima, sapienza cioè una serie multiforme di significati certamente non estranea ad un’incontrovertibile verità: le cose importanti non hanno mai un significato univoco ma si pongono in maniera diversa in rapporto a chi ne fruisce;  una raffinata polisemia che sembra quasi ribadire come un’opera d’arte  possa e debba  relazionarsi, in maniera quasi paritaria, sia con chi la crea che con  chi la osserva, diventando, in tal modo,  necessario corollario di una crescita reale. Ed è forse per questo bisogno, in parte inconscio,  di aprirsi al sociale ed alla sperimentazione che nella produzione artistica di Monica appaiono decisamente prevalenti diverse testine, in plexiglass o  a specchio che, proponendo una visione alternativa di se stessi, costituiscono importanti messaggi socio-culturali oltre che artistici. Se, infatti,  ciò che si vede nello specchio è l’immagine speculare, rovesciata, l’esatto contrario  della realtà comunemente accettata, è evidente che utilizzare uno specchio per fare dei volti significa alludere ad un mondo altro, così come accostare due superfici a specchio sottintende un continuo rimando all’infinito. Lo spazio che noi diamo  alla ragionevolezza, alla riflessione, alla storia dell’arte  è lo spazio che si inserisce tra le due superfici:  un tutto vuoto che si contrappone ad un tutto pieno. Non è, dunque, una coincidenza fortuita se in altre teste della Michelotti,  si ritrovano numeri, colori, cifre, lettere, cioè tutta l’attività  dell’essere umano.

Oltre ai volti, l’artista pontremolese ama molto presentare dei cuori, a dittici o singoli  variamente assemblati,  che sfuggono al qualunquismo comunicativo che li ha trasformati in tophos usati ed abusati di stucchevoli e triti messaggi sentimental-retorici, per recuperare quella forza espressiva che l’uso e l’abuso gli ha tolto. I cuori trasparenti e quasi impalpabili di Monica sono infatti i trasmettitori di una  autentica Weltanschauung che condivide con le scienze e le filosofie del nostro tempo il sistema di pensiero che è alla loro base. A volte liberi, più spesso imbrigliati in corde, guidano lungo i sentieri della riflessione; portano ad approfondire il senso di quegli stessi fili, così spesso presenti nelle sue opere e dal significato così sottile e, dialetticamente, inducono ad indagare il rapporto reale tra il filo, inteso come legame, e la libertà reale e/o metaforica, invitando  a soffermarsi sul significato di questa parola, andando oltre  il suo più ovvio significato per coglierne l’accezione autentica e decisamente  ambivalente: un legame, infatti,  può rappresentare la libertà o la schiavitù secondo di come viene vissuto. E se è vero che nel passato molti popoli ritenevano che il legame fosse simbolo di libertà perché in esso è presente il concetto di la fedeltà ad un’idea, ad una persona, è altrettanto evidente che un vincolo può essere subito ma può essere liberamente scelto comunicando, in tal caso,  non un’idea di costrizione ma, viceversa, un’idea di libertà. Se importante, nella produzione artistica della Michelotti, è la scelta dei soggetti rappresentati, non meno rilevante ai fini della sua personale ricerca, è la decisa predilezione per i colori  primari: il bianco, il nero, il rosso, utilizzati senza sfumature, senza passaggio dall’uno all’altro, nella pienezza della loro potenzialità cromatica, simbolo chiaro ed evidente dell’essenzialità intesa come valore portante. Infatti, seppure ad un osservatore superficiale la sua produzione può sembrare formata prevalentemente da prodotti frivoli, semplici complementi di arredo, in realtà uno sguardo più attento ed approfondito, rivela che si è davanti a piccoli oggetti-cult dotati di una grande capacità comunicativa ed in cui la scelta di creare opere apparentemente non-significative nasce da una precisa esigenza: la necessità di un’arte democratica, direi quasi sostenibile. La  Michelotti ama, infatti, le cose essenziali, anche quando possono sembrare superflue.  Ed è questo il suo doppio binario, la sua sfida: percorrere la strada che porta ad imparare, ma anche ad insegnare,  a convivere quotidianamente con l’arte, senza sacralizzarla, ma trasformandola nella via maestra di una raffinata quotidianità.