Il concetto di ironia

Fulvio Sguerso

Dal greco eironèia (interrogazione e finzione). E’ classificata tra le figure di pensiero ma anche di parola. Nelle definizioni antiche e moderne prevale la concezione dell’ironia  come antifrasi o “inversione semantica” (affermare l’opposto di quello che intendiamo veramente dire); non mancano tuttavia riferimenti alla funzione comico-burlesca, o al suo uso nelle conversazioni salottiere, quando si tratta di deridere e, appunto, di ironizzare su determinate persone o stigmatizzare atteggiamenti sconvenieti o riprovevoli in maniera indiretta (cioè evitando di dire pane al pane). In ambito psicoanalitico è interpretata come un modo per mascherare l’aggressività latente nei confronti di qualcuno e per allentare la tensione psichica ricorrendo all’umorismo (autoironia). In ambito filosofico si possono distinguere quattro specie di ironia: a) socratica, b) illuministica, c) romantica, d) esistenziale. Un conto è infatti l’autoironia  di Socrate che si finge ignorante per far scoprire le carte (cioè i pregiudizi) dei suoi interlocutori, un altro è il caso, ad esempio, del filosofo, personaggio del Neveu de Rameau del Diderot, che è veramente ignorante; o quello del celebre precettore tedesco Pangloss del giovane Candide nell’omonimo romanzo di Voltaire, il quale crede davvero di vivere nel migliore dei mondi possibili malgrado ogni evidenza  in senso contrario. L’ironia socratica consiste invece nell’atteggiamento del filosofo che si dichiara ignorante in merito  alle questioni di cui si tratta per costringere l’interlocutore a motivare fin nei minimi particolari la propria tesi, giungendo così a constatarne l’infondatezza o il carattere di semplice opinione valida come qualunque altra. L’ironia socratica fa parte  della “maieutica”, cioè del metodo che tende a condurre l’interlocutore, tramite opportune interrogazioni, a scoprire da sé le risposte piuttosto che ricorrere a un’autorità esterna considerata detentrice della verità. In Aristotele l’ironia assume una connotazione eticamente negativa: in quanto finzione e dissimulazione è deprecabile. Come anche per Tommaso d’Aquino. Diverso significato riveste l’ironia romantica: Friederich Schlegel considera processo ironico la rinuncia del soggetto a lasciarsi irretire nella realtà materiale, quindi il non prendere sul serio le cose di questo mondo e volgendosi a quelle di un altro mondo tutto spirituale, poetico, ideale. L’artista romantico esprime e rappresenta questa tensione alla trascendenza, ma la trascendenza è infinita, e l’ironia romantica significa proprio questa impossibilità di rappresentare l’irrappresentabile, di cogliere e contenere l’infinito nel finito di un’opera d’arte sia pure sublime; dal punto di vista del soggetto assoluto, infatti, i prodotti dell’arte e il mondo stesso appaiono contingenti e condizionati. L’ironia romantica sarà in seguito criticata da Hegel, che la considera un atteggiamento esasperato della soggettività che pone se stessa al di sopra di tutto. Per Soren Kierkegaard, invece, l’ironia, è un sentimento di distacco che conduce a riconoscere e a prendere atto che la vita vissuta fino a quel momento non ha più senso; questa è l’accezione esistenziale dell’ironia. Nella sua dissertazione Sul concetto di ironia in costante riferimento a Socrate (1841). Kierkegaard si muove all’inizio nel solco dell’analisi hegeliana: la crisi etica della società ateniese del V secolo consiste nella perdita di stabili punti di riferimento per i politai così nella sfera pubblica come in quella privata. La sofistica rappresenta questa crisi pervenuta all’ autocoscienza: tutti i valori tradizionali, fino ad allora considerati sacri e intangibili, vengono messi in discussione; soggettivismo e relativismo tengono il campo e ci sono tante verità quante sono le opinioni. Secondo Hegel, anche Socrate agisce  dentro questa crisi, ma si distingue dai sofisti per il senso costruttivo e “umanistico” della sua critica, volta a ritrovare nell’interiorità dell’autocoscienza  i fondamenti per una nuova sostanzialità etica, sostanzialità che tuttavia solo Platone, nella sua Repubblica,  saprà delineare. Questo è il punto in cui  Kierkagaard – come osserva Anonio Banfi – prende le distanze da Hegel: “egli rimane fisso al valore della critica socratica, come negazione dell’obiettività etica, e alla riflessione della soggettività in sé come scoperta del proprio ‘non sapere’. In questo superare ogni realtà etica, in una ricerca che, in quanto ricerca, si sa senza fine e senza risultato, sta il senso dell’ironia socratica”. Senza fine e senza risultato? Eppure è proprio grazie a questa ironia che Socrate ha la forza di rimanere fedele a se stesso innanzi alla prova suprema della morte, è per questa sua coerenza estrema che Kierkegaard lo definisce “un eroe tragico-intellettuale”: “Se Socrate avesse taciuto in questa crisi della morte avrebbe appannato il senso della sua vita; avrebbe fatto supporre che l’elasticità dell’ironia era in lui un gioco e non una forza cosmica…L’importanza del suo discorso sta in ciò che in esso egli realizza, nell’istante decisivo, tutta la sua personalità. L’eroe tragico-intellettuale deve avere e mantenere l’ultima parola…Allora, al punto massimo della sofferenza, davanti alla morte, proprio per questa parola, egli diviene, ancor prima di morire, immortale” (Da Timore e tremore).

7 pensieri su “Il concetto di ironia

  1. Interessantissimo articolo.

    Faccio una variante al tema: l’autocoscienza ma di più l’ironia degli uomini sono prove dell’esistenza di DIO, secondo me.
    Se fossimo solo materia, inclusi neuroni e sinapsi, saremmo capaci di raccontare barzellette?

  2. Il suo commento, signor Amgelo, mi ricorda la famosa battuta di un filosofo spagnolo: “Sono ateo…grazie a Dio!”; e anche quella del grande regista Luis Bunuel: “Sono ateo…ma spero che Dio non se ne accorga!”. Riguardo all’autocoscienza e all’ironia pare che siano prerogative esclusivamente umane: così le bestie come le macchine “intelligenti” sono incapaci di ridere di se stesse, o semplicemente (malgrado la iena ridens) di ridere. Quanto a dedurre dal riso l’esistenza di Dio, io sarei più cauto, anche perché, dicevano i latini, “risus abundat in ore stultorum” e lo stolto pensa in cuor suo “Dio non esiste” (Salmo 52). Ma è anche vero che la fede in Dio rallegra il cuore e tiene lontana la disperazione, e dove c’è la grazia di Dio c’è anche “perfetta letizia”, come sapeva bene Santo Francesco.
    Un cordiale saluto da
    Fulvio Sguerso

  3. Fulvio,

    lei è una miniera di informazioni!

    Anch’io ce ne ho una simpatica, ma non ho tempo ora di sintetizzarla qui.
    Trattasi dell’esperimento mentale di Searle: la stanza cinese.
    In rete la si trova agevolmente.

    Ciao

  4. Gli studi di Johon R. Searle sono fondamentali per chi voglia capire qualcosa del “Mistero della coscienza”, e già il fatto che parli di “mistero” la dice lunga sulla sua posizione antiriduzionista. Famosa è la sua disputa con Daniel C. Dennett, sostenitore della possibilità di progettare robot intelligenti quanto, e forse più
    degli esseri umani, il cui cervello è notoriamente esposto a pericoli di vario genere. La “camera cinese” è appunto un esperimento mentale con il quale Searle intende dimostrare che si possono ordinare nella giusta successione dei fogli scritti in cinese senza conoscere una parola di cinese. E questo è quello che può fare anche un computer, quello che invece il computer non può fare è capire che cosa c’è scritto sui fogli, perché la sua intelligenza è meccanica e incapace di capire il significato degli ideogrammi cinesi. In altri termini, per Searle, la mente (la coscienza) ha qualcosa in più del cervello, e non è riducibile ai processi neuronali e ormonali che veicolano sensazioni e percezioni. Possiamo chiamare quel “qualcosa in più” anche “soggettività”, parola (e concetto) invisa ai funzionalisti puri come Dennett, che non saprebbero come misurare od osservare il tasso di “soggettività” implicito in ogni processo conoscitivo.
    Grazie, Amgelo, per la segnalazione.
    Fulvio

  5. Aggiungo:

    il paradosso della stanza cinese sta proprio nel fatto che un essere umano può essere certo al più della propria coscienza, del proprio sé.
    Ciò che è fuori da sé (macchina o uomo) potrebbe esserne privo o averla. Non si può dire.

    Inoltre: e se questa certezza della autocoscienza fosse invece soltanto una rappresentazione (visione interna) di ciò che in realtà non esiste?
    Cioè: e se la coscienza di sé fosse un’ombra?

    Grazie a lei, Fulvio.

  6. Lei ha posto, signor Amgelo, una questione filosofica fondamentale, riassumibile nella domanda “Che cosa possiamo realmente conoscere?”. Qualunque cosa noi conosciamo, sarà sempre una parte, anzi, una particella di qualche altra cosa che ci sfugge, e così via per tutte le nostre conoscenze; per tante che siano saranno sempre “parti” di qualcos’altro che ci sfugge…Anche la coscienza che abbiamo di noi stessi è coscienza di una parte di noi stessi, che non potrà mai “illuminare” tutto il nostro essere, la maggior parte del quale rimane, appunto, in ombra. Quanto alla reale esistenza del mondo esterno alla coscienza, come possiamo esserne certi? E’ questa la domanda a cui cerca di rispondere, tra gli altri contemporanei, Hilary Putnam, l’autore di “Ragione, verità e storia” (1981). Putnam propone l’esperimento mentale noto come “Il cervello in una vasca” (cercare su Internet); si tratta di una situazione in cui il soggetto crede reale ciò che invece è solo virtuale. E’ la situazione illustrata nel famoso film Matrix (1999) dei fratelli Andy e Larry Wachowski. Certo è che quello che percepiamo del mondo lo percepiamo tramite i nostri sensi e il nostro intelletto, quindi attraverso un filtro mentale, e secondo i modi a noi possibili… Come sia, in realtà, la realtà, non lo possiamo sapere (almeno da vivi).
    Un cordiale saluto.
    Fulvio

  7. Se Platone potesse itervenire in questo dialogo tra lei e Amgelo, metterebbe entrambi in guardia dalla conoscenza sensibile raccontando il celebre mito della caverna,tratto da La Repubblica.

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