La mancanza di compassione è la “vera” patologia morale della nostra epoca

Giovanna Rezzoagli

Termini come “verità”, “certezza”, “giusto”, “sbagliato”, sono molto usati sia nel linguaggio parlato che scritto. Da un punto di vista strettamente comunicativo rappresentano un’intenzionalità coercitiva di quella che è la libertà di pensiero. Raramente ci si rende conto di ciò, ma tutti noi siamo bombardati da sentenze più o meno gratuite, elargite più o meno con secondi fini da svariati personaggi, meno che più in buona fede. Chiunque utilizzi il linguaggio ha un potere virtualmente immenso su chi è il ricettore finale del messaggio comunicativo. Colui che riceve, spesso passivamente, i messaggi comunicativi, non sempre possiede efficaci risorse emotive ed intellettive per controllarne l’impatto  sulla propria psiche. Questa è la base del condizionamento delle masse sociali. Teoricamente chiunque può esercitare condizionamento sociale. Veniamo al perché di questo scritto, che nasce dopo aver letto una notizia riguardante un fatto di cronaca che tende a ripresentarsi sempre più spesso all’attenzione generale: l’aggressione di un ragazzo omosessuale. Questa volta è successo a Reggio Calabria e la vittima è un giovane trentenne, prima fatto oggetto di insulti verbali e poi di un’aggressione fisica importante, tale da richiedere il ricovero ospedaliero. Inutile sottolineare che il giovane è stato aggredito da tre persone che si sentivano nel “giusto”. Da sottolineare che coloro che nutrono sentimenti di odio hanno una scarsa percezione della propria interiorità ed agiscono in gruppo proprio per sedare l’insicurezza di fondo che tentano di nascondere con comportamenti aggressivi. Ciò che rende questa storia ancora più squallida è la violenza psicologica di cui il giovane aggredito è stato vittima una volta giunto in ospedale: senza troppi giri di parole un infermiere gli ha suggerito di “farsi curare” le proprie tendenze sessuali, ovviamente ritenute “sbagliate”. Inutile qualsiasi considerazione di ordine deontologico e professionale sul comportamento di questo infermiere nell’esercizio delle sue funzioni, il gesto si commenta da solo. Nella sua crudezza e profonda grettezza ricorda la storica sentenza con la quale un giudice decretò che una donna non poteva aver subìto alcun stupro da parte del proprio violentatore poiché indossava un paio di jeans che, a detta dell’illuminato, erano incompatibili con la non consensualità alla violenza. Nel medioevo sociale in cui siamo improvvisamente sprofondati, complice anche una insicurezza generalizzata che colpisce i deboli in primis, non stupisce notare che le scienze psicologiche siano spesso assunte a pretesto per condannare o assolvere comportamenti che sono pertinenti solo ed esclusivamente alla sfera intima e personale, ovviamente se non finalizzati ad arrecare danno a terzi. La psicologia non scienza: tenta d’esserlo, per cui si presta alle più svariate interpretazioni sia di addetti ai lavori che di presunti tali. In ogni caso è ben poco etico e, sempre in ogni caso, al di fuori di qualsiasi protocollo terapeutico ufficialmente riconosciuto dall’OMS “consigliare” una terapia per curare l’omosessualità. Esistono terapie di tipo cognitivo–comportamentale finalizzate a sopprimere impulsi omosessuali, ma, per chi è addetto ai lavori, forte è il dubbio che il terapeuta eserciti una pressione psicologica, attraverso il contro transfert, verso il soggetto al fine di indirizzarlo verso i comportamenti ritenuti “giusti”. In ambito psicologico, deontologicamente, non esiste il giusto e non esiste lo sbagliato. Esiste il patologico ed il non patologico ed esiste il border-line. L’omosessualità è annoverata tra i comportamenti non patologici. Fino al 1973 – quando è stata depennata – l’omosessualità figurava come disturbo psichiatrico nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders  (DSM). Per fortuna da bel po’ è chiaro che la stragrande maggioranza di medici, psicologi e scienziati in genere (e dell’opinione pubblica) non la considera più tale, ma, si sa, le cattive abitudini sono dure a morire  Uno studio controverso che è stato per anni il riferimento per i sostenitori del movimento “ex-gay” viene ritrattato dal suo autore. Nel 2001 aveva fatto scalpore una ricerca di Robert Spitzer (presentata prima a un congresso e poi pubblicata nel 2003 sugli Archives of Sexual Behaviuor) , basata su 200 interviste a “ex-gay” che dichiaravano di aver cambiato orientamento sessuale (ovviamente verso l’eterosessualità) con successo. Ebbene, Spitzer oggi dichiara che intende ritrattare il suo studio (fonte l’Huffington Post). “Devo ammettere a posteriori che le critiche erano in buona parte corrette, ” ha dichiarato Spitzer, riferendosi al coro di voci di dissenso verso i metodi e le conclusioni tratte nello studio che si sono sollevate dopo la pubblicazione. La decisione definitiva di ritrattare il paper Spitzer l’ha avuta dopo essersi reso conto che per se stesso e per molti individui i tentativi falliti di modificare l’orientamento sessuale sono risultati dannosi, sia a livello psichico che sociale. Conferma del fatto che la Psicologia deve affinare la metodologia scientifica. Il comportamento dell’infermiere reggino è da censurare sia professionalmente che umanamente. Si potrebbe persino definire socialmente patologico, poiché privo di qualsiasi forma di compassione verso un paziente che era appena stato vittima di una brutale aggressione. Specchio dei tempi? A mio parere si. Citando la definizione di Fabien Ouaki, intellettuale ed economista francese, la compassione è uno spazio vuoto che crea la possibilità di comunicare tra due o più persone. Io aggiungo, condividendone il dolore e l’angoscia, chiunque esso sia e, soprattutto, chiunque noi si sia. La compassione è parte della natura umana, quando viene tacitata o sopraffatta a qualunque titolo, per qualsiasi scopo, con qualunque mezzo, allora si crea il  cosiddetto “male”. In termini sociologici, si creano le basi per determinare l’insorgenza di una patologia sociologica.