L’incubo aids

Giovanna Rezzoagli

Sull’edizione quotidiana (25 febbraio 2012) de “Il Secolo XIX” è pubblicata una notizia che fa rabbrividire. Un controllore della locale azienda dei trasporti è stato morsicato da una donna che era sprovvista di biglietto. L’episodio, già grave, è reso drammatico dalla risultanza che l’assalitrice è sieropositiva. Per quest’uomo è l’inizio di un vero e proprio incubo. Nonostante abbia già, presumibilmente, iniziato una profilassi antivirale per ridurre al minimo il rischio di contagio, inutile sottolineare che il rischio c’è ed è concreto. Questo drammatico episodio di cronaca avvenuto a Genova offre lo spunto per stigmatizzare quanto ciascuno di noi sia a rischio di contrarre questa patologia. Una patologia relativamente recente e che, nonostante sia oggetto di intense ricerche scientifiche, rappresenta una delle malattie in costante diffusione. Si stima, ad oggi, che esista un rischio altissimo di contrarre l’infezione se si entra in contatto col sangue di una persona infetta. Tale rischio è quantificato al 95% in caso di trasfusione ematica diretta, la percentuale scende poi a seconda del tipo di contatto che si può avere con il virus che, è utile ricordarlo, si trasmette attraverso i fluidi corporei. Ad oggi, la più alta percentuale di contagio nel mondo avviene tra madre sieropositiva (o affetta da AIDS conclamato) e neonato, durante il parto. Superfluo specificare che ciò avviene prevalentemente nei paesi più poveri, dove le cure sono inadeguate se non del tutto inesistenti, così come è nulla la prevenzione a pari merito l’informazione. Già, la prevenzione. L’AIDS, come tutte le altre patologie, per essere prevenuta innanzitutto va conosciuta. Ormai è certo che il virus abbia avuto origine in Africa e che si sia diffuso prima tra i primati e, successivamente, all’uomo. Il virus responsabile della Sindrome da Immunodeficienza Acquisita è il primo ad avere la capacità di mutare in modo estremamente rapido, ciò ha impedito la messa a punto di un vaccino efficace. La malattia colpisce il sistema immunitario, indebolendolo progressivamente, rendendo il soggetto infetto suscettibile di contrarre altre patologie o di sviluppare malattie neoplastiche cui è difficile far fronte. Negli anni ottanta l’AIDS era considerata come una sorta di malattia maledetta, le cui vittime in qualche modo fossero responsabili di averla contratta. Questa visione sociologica ha purtroppo confuso una corretta diffusione delle informazioni scientifiche, specialmente quelle relative all’epidemiologia del virus. Oggi sappiamo che, se da un lato i comportamenti di promiscuità sessuale e la tossicodipendenza sono certamente fattori di rischio, è altrettanto vero che si è esposti al virus a livello prettamente sociale. Tecnicamente si può contrarre il virus anche semplicemente soccorrendo la vittima di un incidente, per fare un esempio concreto. Cosa si può ragionevolmente fare per minimizzare i rischi di contagio, senza ricorrere ad inutili e del tutto strumentali ghettizzazioni dei malati? A livello individuale, molto, attraverso una prevenzione sia attiva che passiva, improntata in primis su di una corretta informazione. A livello sociale, moltissimo, soprattutto cercando di trasmettere messaggi corretti. In molti ignorano che molti contagi avvengono per via sessuale, ma attraverso rapporti eterosessuali in percentuale molto maggiore rispetto a quelli omosessuali. Il perché è presto detto: si è creata una cultura secondo la quale i rapporti eterosessuali fossero non a rischio. Così non è, ovviamente. Il rischio è lo stesso, se un soggetto è sieropositivo. Il vero dramma è comunque a livello mondiale, perché la malattia può rimanere  silente per anni e chi è contagiato può a sua volta inconsapevolmente contagiare. Chi lavora in contesto sanitario lo sa molto bene: basta pungersi con un ago infetto per essere a rischio e precipitare nell’incubo. Ciò vale per molte patologie, come la temuta epatite C, per la quale non esiste vaccino. Forse, se si fosse posto in essere un serio programma di prevenzione e di informazione, oggi lo sfortunato controllore di Genova non vivrebbe nell’incubo, e migliaia di neonati non nascerebbero già condannati. E pensare che il virus si è diffuso tra gli umani, molto probabilmente, per violazioni sistematiche dell’ecosistema. Se l’uomo non si ritenesse signore e padrone del pianeta Terra, forse il temuto virus non sarebbe passato da un primate, probabilmente crudelmente ucciso, ad un uomo che ne abbia toccato il sangue. L’epidemiologia non ha una risposta certa, ma lo scenario sopra descritto è verosimile. La natura tende all’omeostasi: mai dimenticarlo. L’arroganza con cui ce ne siamo dimenticati sarà, probabilmente, causa di dolorosi scenari futuri.