Conosciamo il popolo Lega (Congo Rd): il regno dei morti

Padre Oliviero Ferro

L’unione vitale dei popoli bantù fa di questi popoli un’unità inscindibile che vince la stessa morte. Esiste un’unità straordinaria e una interdipendenza tra il regno dei viventi e il mondo dei morti. E’ una potente legge di vita: i vivi continuano a viver grazie alla continua intercessione e protezione dei morti e questi possono continuare a vivere nel  “grande villaggio” grazie alla continua intercessione e protezione dei morti e questi possono continuare a vivere nel “grande villaggio” grazie al continuo ricordo che di loro hanno i vivi. I Lega vivono molto profondamente e sentitamente tale legge vitale di interdipendenza tra i due mondi. Cerchiamo di capirla meglio. La morte è uscita da Dio. Tutto il creato dipende da Dio, la sola causa prima di tutto e quindi anche della morte. Ciò non equivale a rendere Dio responsabile o colpevole della morte dei buoni, dei giovani, dei bambini; il vero colpevole è il Diavolo, il mucòma, nemico dell’uomo. Nessuno, eccetto il vecchio, muore di morte naturale o per malattia, ma sempre per influssi malefici e per l’azione deleteria dei “soldati” di Satana, in particolare i bakanga, gli stregoni.  Quando uno muore nel villaggio, tutto il villaggio partecipava al mulambè, il lutto, perché la morte di uno tocca direttamente tutta la comunità che è di fatto una sola famiglia estesa. Non si fanno particolari cerimonie, ma si procede immediatamente alla sepoltura. A morte avvenuta, iniziavano i lamenti e i pianti riservati alle sole donne, poiché mulinyama talilakè (l’uomo non piange).  Prima dell’arrivo dei bianchi, veniva sepolto nudo(perché nudo era venuto al mondo); poi si è cominciato a utilizzare le casse da morto. Nella sepoltura non si teneva conto della direzione o della posizione del capo, ma si metteva il defunto in posizione seduta, piegando le gambe e le braccia in modo che i gomiti poggiassero sulle  ginocchia e le mani sostenessero  il capo: la posizione del feto nel seno materno (la terra è la nuova madre). Unica eccezione era  per quelli che morivano di dissenteria e lebbra. Venivano sepolti lontano, per evitare pericoli di contagio. Tutto il rito particolare è presieduto dal mukila (stregone) che oltre a eliminare il corpo, elimina pure lo spirito cattivo. Quando uno muore, in particolare il padre o il nonno, lo si prega per misurare la sua forza nell’intercedere presso Dio. Non si conoscono spiriti particolari che tutti possono pregare, eccezione fatta per lyanaka e Wenya, gli spiriti della caccia. Di regola ci si rivolge agli spiriti del famigliari: lo spirito del capo famiglia, del nonno, del padre. Dopo aver fatto una bella pulizia generale di erbe e di tutto il resto, cominciamo a chiedere che intercedano per noi, perché “non abbiamo sonni tranquilli, perché sentiamo i nostri che si lamentano perché non riescono a dormire, perché lavoriamo i campi senza vedere i frutti, perché seminiamo nel ventre della nostra donna e non vediamo alcun figlio…”. Sui crocicchi delle strade, poi, si costruivano tre piccole casette per gli spiriti, dove portare cibo e bevande perché ci benedissero e ci facessero vivere in pace. Non c’è mai preghiera che non sia individuale e che non sia accompagnata dalla myèngo, offerta, che, essa pure, non riveste mai un carattere sociale. Si offre l’ulezi, specie di polentina fatta con semi di miglio, oppure la kindakinda, polentina fatta con pasta di arachidi. Tale offerta si porta nella musange, una piccola gerla, la si depone nella lwèlo, una piccola capanna rotonda, all’interno di una ngata, una specie di zucca vuotata e tagliata a metà. Il tutto sempre accompagnato da un piccolo ndèa, cioè un’anfora, di màbu, la birra locale. L’intera offerta viene deposta nel kulungu, cantando…Colui che muore va nel grande villaggio dei morti. Non essendoci una “religione sociale”, non esiste una gerarchia tra gli spiriti: gli spiriti che si pregano sono quelli del nonno o del padre o quantomeno di uno della famiglia che si è ben conosciuto. Per l’offerta agli spiriti non c’è un incaricato particolare, simile al sacerdote, che possa fare da legame tra i viventi e gli spiriti. Trattandosi di una “religione” di carattere prettamente priato, starà al figlio o al nipote, nell’ambito familiare, fare l’offerta e la preghiera. Lui andrà a pulire la tomba, lui porterà vicino alla tomba il cibo e la bevanda. Tutti gli altri che l’accompagnano (soltanto i famigliari di sesso maschile, poiché le donne non hanno alcun potere in questo senso), rimangono in disparte e solo l’incaricato si avvicina alla tomba. Terminato il rito dell’offerta, è ancora lui e lui solo che pronuncia la preghiera. Le donne, essendo giudicate dalla società africana come esseri umani “solo a metà”, non hanno alcun potere nell’aldilà: nessuno mai rivolgerà una preghiera allo spirito di una donna e nessuno mai la ricorderà. Da qui la conclusione: le donne non hanno il diritto di  vivere nell’aldilà e non hanno quindi uno spirito (!). (N.B.: la rivoluzione cristiana: donna madre di Dio, e donna come canale che Dio utilizza per la nostra salvezza). La preghiera, il ricordo a Dio, attraverso la mediazione degli spiriti, costella la vita dei Balega in tutte  le sue espressioni. Permea tutti gli avvenimenti della vita: dai più piccoli ai più grandi. In particolare nella cultura dei campi e nella caccia. Quando un mulega muore in territorio straniero o fuori  dei confini della tribù, il suo spirito ritorna sempre al posto d’origine, al luogo della sua famiglia. Il fenomeno  degli iùtu, gli spettri, è visto come una cosa importata da altri posti (non sono spiriti). Pure il fenomeno delle basùngi, streghe, donne che vanno in giro di notte sulle tombe e fanno i loro riti. Spesso si pensa che tutte le donne Lega lo siano, in particolare quando muore il marito, la colpa sarà sempre della moglie! (vengono viste come alleate del diavolo).  I Balega danno molta importanza ai sogni e credono ciecamente alla loro realizzazione.