Come le inclinazioni naturali possono determinare la fortuna o la rovina di un leader

Fulvio Sguerso

In questi “ultimi giorni di Pompei” in cui stiamo tutti assistendo – con sentimenti e da posizioni quanto mai contrastanti e, inutile negarlo, conflittuali – alla fase finale della parabola, o avventura politica di un uomo che ha saputo indubbiamente conquistarsi con il  consenso anche il cuore, se non di tutti certo almeno della metà degli italiani (e delle italiane), a me pare non vano esercizio retorico ricordare quanto, secondo il Machiavelli,  la fortuna o la disgrazia di un leader siano determinate, oltre che dalle circostanze, anche, e soprattutto, dalle sue attitudini e dal suo temperamento, o “natura” che dir si voglia. “Come conviene variare co’ tempi, volendo sempre avere buona fortuna”, è il tema trattato nel capitolo IX del terzo libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. In questo breve capitolo, dopo i consueti esempi tratti dalla storia romana, l’autore considera la diversa sorte toccata a due governanti suoi contemporanei, di temperamento antitetico, come il gonfaloniere a vita Piero Soderini e papa Giulio II; e li mette a confronto per dimostrare, appunto, che il successo o il fallimento di una carriera politica dipendono dalla capacità o incapacità di adeguare il proprio comportamento al mutare dei tempi. Dunque, chi intende riuscire nelle proprie intraprese deve sapersi adattare alle circostanze “temporali”; sembra una massima banale, ma se leggiamo attentamente il testo, la sua applicazione effettiva non lo è per niente, anzi, seguendo il ragionamento machiavellico, se ne deduce addirittura l’impossibilità. Val la pena di riportare il passo per intero: “Piero Soderini altre volte allegato procedeva in tutte le cose sue con umanità e pazienza. Prosperò egli e la sua patria mentre che i tempi furono conformi al modo del procedere suo; ma come e’ vennero dipoi tempi dove e’ bisognava rompere la pazienza e la umiltà, non lo seppe fare; talché insieme con la sua patria rovinò. Papa Iulio II procedette in tutto il tempo del suo pontificato con impeto e con furia; e perché gli tempi l’accompagnarono bene, gli riuscirono le sua imprese tutte.  Ma se fossero venuti altri tempi che avessono ricerco altro  consiglio, di necessità rovinava; perche’ non avrebbe mutato ne’ modo ne’ ordine nel maneggiarli. E che noi non ci possiamo mutare, ne sono cagioni due cose: l’una, che noi non ci possiamo opporre a quello che c’inclina la natura; l’altra, che avendo uno con un modo di procedere prosperato assai, non è possibile persuadergli che possa fare bene a procedere altrimenti; donde nasce che in uno uomo la fortuna varia, perché ella varia i tempi ed egli non varia i modi.” Un primo corollario di questa argomentazione è che né l’umanità né la pazienza, né al contrario l’impeto e la furia possono considerarsi virtù in assoluto. Qui il famoso (e famigerato) pragmatismo machiavellico sembra sconfinare nel più crudo opportunismo relativistico. Ma il secondo e ancor più sorprendente corollario è che né il Soderini né papa Giulio II potevano agire diversamente, perché a quel loro modo di agire li inclinava la “natura”, cioè il loro temperamento, e, com’è noto, il temperamento non lo si può cambiare (teste anche  l’attuale Presidente del Consiglio). Il terzo – ma non certo in ordine di rilevanza filosofica – corollario è che, se così stanno le cose, all’uomo non rimane che obbedire alla natura, cioè alla necessità; oppure lasciarsi andare al caso, governato dai capricci della fortuna. Infine – ultimo corollario – , se la fortuna può far rovinare in un sol colpo anche la più raffinata delle costruzioni politiche, che senso potrà mai avere istruire un principe circa l’arte del buon governo? D’altronde è evidente che un progetto politico, per ben congegnato che sia, è pur sempre soggetto al rischio del fallimento, e non può certo essere garantito da una scienza rigorosa o da una catena di sillogismi inconfutabili: ogni azione umana, per quel tanto o quel poco di progettualità che implica, presuppone il libero arbitrio e l’indeterminatezza della storia. Eppure, per il Machiavelli, al di sotto del divenire e del continuo mutare degli eventi, permane un’essenza originaria, una matrice immutabile da cui derivano quei limiti insuperabili entro i quali scorrono gli avvenimenti storici (e, a maggior ragione, quelli personali). Se questo è il quadro, come spiegare l’insistenza sul contrasto drammatico tra virtù e fortuna, a cui è assegnata una funzione decisiva nel determinare il corso della storia? Se la vera storia è già tutta compiuta e l’avvenire non sarà che la ripetizione di quello che già fu, non rimarrebbe che assoggettarsi di buon grado alle leggi immutabili della natura, per le quali il dovere coincide con l’essere. Se il Machiavelli  fosse coerente fino in fondo, dovrebbe concludere che al di fuori della necessità, cioè dell’essere, non può esserci altro che il nulla; ma tutto il suo pensiero è caratterizzato dalla contraddizione e dall’ambiguità (cfr. G. Ferroni, Machiavelli o dell’incertezza. La politica come arte del rimedio. Donzelli, 2003); né egli intende speculare più di tanto sull’essere in sé, ma su sull’essere di quell’essere ancipite, ontologicamente in bilico tra la bestia e l’uomo (o tra bestia e bestia: volpe o lione, pecora o lupo) che ontologicamente è la persona(lità) umana, e soprattutto sull’essere di quei pochi uomini eminenti che svettano sul “vulgo” e che, con la loro energia vitale tentano di piegare il corso degli eventi per costruire un bene supriore ai singoli beni privati, come nel caso di Francesco Sforza, del duca Valentino e, ancor più, di papa Iulio. Ecco dunque che, di fronte alla necessità, il Machiavelli pone la volontà del soggetto, il quale, con tutti i suoi limiti, agisce nel e sul corso degli eventi, per metà regolati dalla fortuna che, secondo la celebre pagina del Principe, ci lascia governare l’altra metà delle nostre azioni, e in questa metà entra in gioco la virtù, “l’ordinata virtù”, che ha il potere di contenere di contenere l’impeto cieco della fortuna. Ma è veramente cieca la fortuna? C’è da dubitarne, se è in grado di colpire “dove la sa che non sono fatti li argini e i ripari a tenerla”. No, la “fortuna” del Machiavelli è contraddittoria e ambigua come la sua “virtù”, anch’essa ancipite per natura. Dunque fin dove può arrivare la volontà di potenza umana? Per tornare al testo da cui siamo partiti, un singolo uomo non potrà mai variare all’unisono con il variare dei tempi: tra uomo e tempo si apre uno scarto incolmabile, gli eventi mutano più rapidamente di quanto possa mutare un uomo, condizionato com’è dalla sua natura. Per questo sarebbe follia pretendere di dominare il tempo.

5 pensieri su “Come le inclinazioni naturali possono determinare la fortuna o la rovina di un leader

  1. Non per un uomo che si sente un Dio…ma non sa di aver smarrito se stesso!!!!
    Gazie , prof. Sguerso, per le sue preziose lezioni di Vita,che fanno molto riflettere e che ci arricchiscono di UMANITA.

  2. Carissimo Dr Fulvio Sguerso,
    E’ molto vero quello che ella asserisce e mi insegna; e lo fa con molta convinzione e precisione, e con termini eloquienti porta avanti la sua teoria che è, al dir poco,avvincente.
    Ha ragione, anche i Governanti hanno bisogno di ponderatezza nei loro, spesso, coloriti linguaggi.
    Oserei, se mi permette, di aggiungere che, fino a prova contraria, l’esistenza del vero carattere degli italiani è ben conosciuto ed anche apprezzato da gente oltre confine ed oltre oceano, soprattutto per il suo “singolare” romanticismo. Cosa che ci viene addebbitato, ma che abbiamo ereditato fin dai tempi dei Romani. Probabilmente c’è ancora chi non ha ancora perso tale “vena poetica…” che potrebbe essere considerata come la cornice di un dipinto che ancora mostra l’innato carattere di ancora tanti figli dell’italica patria….
    Allora, ai tempi nostri, si può andare alla storia anche avendo nel prprio DNA tali simili caratteristiche?
    Con un grande affettuoso abbraccio, saluto Lei e agli eventuali lettori.

  3. Gentile, attenta e sempre puntuale lettrice Civetta, vedo che anche lei, come il sottoscritto, ha apprezzato il grandioso e alto monologo di Roberto Benigni nella prima puntata di “Vieni via con me”, già nell’occhio del ciclone ancor prima di andare in onda, figurarsi dopo. In quel monologo (apprezzato da metà Italia, e, a dir poco, snobbato dall’altra metà), io credo che l’attore toscano abbia rappresentato icasticamente non tanto gli evidenti tratti comico-farseschi del superegoico personaggio, politico e mediatico al tempo stesso, che mette gli italiani gli uni contro gli altri, ponendosi e atteggiandosi ora come salvatore della patria ora come vittima dei magistrati e dei giornalisti (per tacer dei “criminosi” conduttori televisivi che non siano come Vespa e come il fedele Fede)”di sinstra” o, peggio ancora, “comunisti”), ma proprio anche il risvolto tragico, o se vuole tragicomico, di un povero – non in senso evangelico ma etico – uomo che manifesta una evidente sindrome delirante da mania di grandezza e di onnipotenza. So di attirarmi, con questa mia affermazione, gli strali dei lettori filoberlusconiani, ma……pazienza (virtù per niente berlusconiana, malgrado “lui” dica di aver sopportato fin troppo!). Certo è che sarebbe ora di uscire da queste secche che deprimono anziché elevare gli animi, per non parlare del PIL.
    Con stima,
    F. S.

  4. Caro signor Alfredo, lei sa quanto mi siano graditi i suoi commenti e quanto apprezzi la sobrietà e la trasparente schiettezza del suo stile. Lei parla del “singolare romanticismo” per cui gli italiani sono conosciuti e apprezzati nel mondo. Verissimo, basti pensare alla grande arte e alla musica italiana, soprattutto lirica (da Pergolesi a Rossini a Verdi a Puccini a Mascagni a Catalani, ecc.). Purtroppo, nondimeno, siamo anche famosi per altri aspetti e fenomeni di cui non possiamo certo andar fieri. Lei mi ha compreso, vero?
    Con stima e sincera amicizia.
    Fulvio Sguerso

  5. Sì, ho apprezzato molto quella trasmissione e in particolare Roberto Benigni: un grande dello spettacolo, un grande nostro concittadino!
    Lui è capace di esprimersi con un’arte tragicomica come solo il grande Edoardo de Filippo sapeva fare. La sua è una comicità che fa riflettere ma solo chi”ha orecchie per sentire”, perchè quando si “odia” uno come Benigni è solo perchè fondamentalmente “lo si teme”, così come quando “non si sopporta” uno come Roberto Saviano è perchè dentro di sè paradossalmente lo si riconosce come un “grande”, altrimenti non ci si può esprimere in certi termini.Benigni e Saviano sono “artisti del vivere” e non sono perciò nè di destra ,nè di sinistra. Loro sanno parlare,ognuno a modo suo, all’animo umano.Si sa l’Odio è l’altra faccia dell’Amore. Perciò quelli che continuano a dire di “non sopportare” Benigni e Saviano definendoli “antipatici”,come più volte è stato quì affermato , in fondo tradiscono una grande invidia e sicuramente NON INDIFFERENZA e in ciò è la grandezza di questi due personaggi: li si ama anche quando li si odia! Con grande stima .

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