“Spiragli sinestesici tra arte e vita”, ossia, “del misterioso ritratto di Beatrice Cenci (Guido Reni?) e dell’uomo che scambiò la moglie per un cappello” (di Oliver Sacks)

“Spiragli sinestesici tra arte e vita”, ossia, “del misterioso ritratto di Beatrice Cenci (Guido Reni?) e dell’uomo che scambiò la moglie per un cappello” (di Oliver Sacks)

Bianca Fasano

Quando si apre uno spiraglio sullo studio di un indirizzo nuovo, è, da prima, come osservare, da un piccolo spazio, da una porta appena socchiusa, quest’opportunità che la nuova conoscenza ti offre. Durante le prime fasi si ha la sensazione che ogni cosa sia nuova e, talvolta, incomprensibile. Poi, continuando a penetrare la logica e la simbologia del nuovo argomento di studi, si ritrovano vecchi amici, ma presentati con schematismi differenti, differenti punti di vista e di fuga, che permettono anch’essi l’apertura di nuovi spazi cui non avevi mai pensato.

Dopo averli scoperti, ti sembra strano che non li avessi mai percepiti prima di allora con chiarezza, che li avessi vissuti come qualcosa “che c’è”, ma di cui non ti sei chiesta le ragioni.

Sia nel campo dell’arte che in quello della vita quotidiana alla quale ad ogni titolo anche l’arte appartiene, accadono fatti che sembrano richiamarne altri, allo stesso modo con cui, quando si penetra in un ambiente nuovo o non bene conosciuto, nel momento in cui si avanza si prospettano nuove visuali cui prima non potevi accedere. Un po’ come progetta un architetto nel momento in cui mette su carta le sue idee e di volta in volta le modifica, le amplia, ci gira intorno, ne nota nuove sfaccettature, che poi saranno quelle che l’essere umano scoprirà, vivendo la struttura architettonica, una volta che il progetto si trasforma in fatto fisico.

È a causa di ciò che, nella prima lezione cui assistevo di “Information design”, laddove si trattava il tema delle sinestesie, mi sono trovata spiazzata di fronte ad un quadro che non conoscevo, ossia a un’opera attribuita a Guido Reni, “il ritratto di Beatrice Cenci”, (Roma, 6 febbraio 1577 – Roma, 11 settembre 1599) giovane nobildonna romana giustiziata per parricidio, quando, nel corso della lezione stessa, è stato riportato un esempio tratto dal tema di un articolo di W.J.T. Mitchell, “Non esistono media visivi”: “Le parole non sono quelle della pittura classica, o di un paesaggio poetico,o di un mito,o di una allegoria religiosa,ma un discorso sulla teoria,sull’idealismo e sulla filosofia critica. Il discorso critico è cruciale per comprendere la pittura moderna come la Bibbia o la storia  o la classicità. lo propendo per la pittura narrativa tradizionale, sia come gusto che come metodo artistico, in quanto pittrice. Tuttavia, senza l’utilizzo della filosofia critica, una persona che osserva l’opera potrebbe rimanere sospesa di fronte al dipinto di Guido Reni “Beatrice Cenci il giorno prima della sua esecuzione”, nella situazione di Mark Twain,il quale notò che un osservatore non informato che non conosceva il titolo e la storia avrebbe potuto concludere che era il dipinto di una giovane donna con il raffreddore,oppure una ragazza a cui sanguinava il naso. Senza il precedente, un osservatore non informato potrebbe vedere (e ha visto) i dipinti di Jackson Pollock come “nient’altro che tappezzeria”.

Strano per me, ma vero, di quel quadro non avevo mai sentito parlare e neanche della storia di Beatrice Cenci e, per conseguenza, mi trovavo proprio nella situazione descritta da Mark Twain. Confesso di essermi incuriosita, sia dell’uno sia dell’altra e avere quindi ricercato “con i potenti mezzi d’internet”, di saperne qualcosa di più. Quel ritratto, quella storia, capace sì, in maniera sinestesica di espandersi anche nel mondo della celluloide con una serie lunghissima di film (1908, Francia, di Albert Cappellani; Italia, 1909, di Mario Caserini; Italia, 1910,di Ugo Falena; Italia, 1913, di Baldassarre Negroni; Italia, 1926, di Baldassarre Negroni; Italia, 1941, di Guido Brignone; Italia, 1956, di Riccardo Freda; Italia, 1969, di Lucio Fulci; 1987, Francia-Italie, (quarto Comandamento), di Bertrand Tavernier), erano una scoperta.

Così mi sono messa alla ricerca dei fatti, immaginari e veri, scoprendo che Beatrice è ben conosciuta a Roma, presso Castel Sant’Angelo, anche sotto forma di Fantasma, poiché se ne va in giro, vestita di bianco, con la sua testa tagliata tra le braccia. Beatrice, cui certamente non mancarono sino alla morte, macabre avventure sinestetiche, poiché si racconta che alle persone private della testa resti per qualche minuto la vita, appunto, nel capo. Avrà percepito quindi i suoni, le urla della folla, la durezza del suolo, il suo odore… nel lasciare la vita.

E, sulla Piazza piena di gente, c’erano anche tre pittori piuttosto particolari, mescolati alla folla in quell’undici settembre del 1599: Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, Orazio Gentileschi e la sua figliola Artemisia che, in quegli anni, si rese protagonista dello scandalo di avere accusato un uomo di averle usata violenza. Artemisia doveva in quei momenti molto fortemente, con i sensi del corpo e dell’anima, sentirsi vicina a quella fanciulla che aveva patito dal padre (poi ucciso, ma non da lei stessa), per anni, quelle stesse violenze. Eppure non fu il Caravaggio, o Artemisia a ritrarre Beatrice, piuttosto un Guido Reni che, a conti fatti, a Roma in quegli anni non c’era, poiché si trovava a Bologna. Si sussurra, invece, che l’opera sia stata dipinta da una donna: Elisabetta Sirani, morta poi giovanissima a ventisette anni.

Come non appassionarsi ad una storia così, a quella scena tragica in cui le leggi carnefici dei sensi umani facevano scempio con torture inesauribili ed inesauribile violenza?

Vero: alle spalle del dipinto, (sia del ritratto sia del successivo lavoro fatto più tardi da chi immaginò Guido Reni presente in carcere assieme a Beatrice, che si lascia ritrarre), non può nascondersi che un mondo di silenzio.”Il silenzio degli innocenti”.

Quel mondo di cui accenna Carlo Carrà, quando, nel manifesto della pittura futurista del 1913, stampato su L’Acerba (La pittura dei suoni, rumori, odori), definisce la pittura di prima del XIX secolo “l’arte del silenzio”.

Sì, l’arte del Silenzio, rotta dai timidi tentativi di una pittura che esprime la musica ritraendola con gli artisti che la descrivono nelle rappresentazioni pittoriche come quelle di un Degas o di un Renoir.

Il silenzio. Quello stesso che appare nel lavoro di Oliver Sacks “Risvegli”, (Awakenings), dal quale è stato tratto il film omonimo con Robin Williams e Robert De Niro. Quanta gente, colpita dall’encefalite letargica, (di cui si erano ammalati nel corso di una forma epidemica comparsa negli anni dal 1915 al 1924, estintasi nel 1935), perse i sensi, dormendo per anni, finché lo stesso Sacks, così come narra appunto nel suo libro “Risvegli”, non scoprì il trattamento di pazienti post encefalitici affetti da encefalite letargica, con L-DOPA durante gli anni sessanta. Con successivi e purtroppo tristi sviluppi. L’autore, un neurologo, entra a contatto proprio con le distorsioni dei sensi, capaci di provocare ogni tipo di patologia del silenzio e di distorsione dei sensi.

Ad esempio, nel suo scritto “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”, saggio neurologico pubblicato per la prima volta a New York nel 1985, racconta alcune sue esperienze cliniche di neurologo e descrive alcuni casi di pazienti con lesioni encefaliche di vario tipo, che hanno prodotto i comportamenti più tristi e bizzarri. Uno strano mondo quello descritto da Sacks, dove una paziente perde le capacità propriocettive, non riuscendo più a sentire il proprio corpo, o dove un uomo (da qui il titolo del lavoro di Sacks), non riesce più a distinguere le cose tra loro e le cose dagli esseri umani, per cui, nel lasciare lo studio del medico, tenta di prendere la testa della moglie per metterla sulla propria, scambiandola per un cappello.

I nostri sensi, quindi, non ci dicono sempre la verità. Spesso mentono, si sbagliano, si confondono tra loro, anche quando stiamo in buona salute. La vista, prioritaria sui sensi, non sempre è in grado di “vedere il vero”. E gli artisti lo sanno, lo sentono più di altri. Basti pensare a Magritte, ai suoi sassi leggeri, che contendono il cielo con le nuvole:

Magritte diceva che ogni oggetto aveva un nome, ma sarebbe potuto facilmente essere sostituito da un altro e giocava con la linea, producendo nello stesso tempo immagini e parole.

Tutto ciò esisteva anche prima che io mi approcciassi allo studio di information design, così come la “vestibolare” Cattedrale di Chartres, che nella tabella prodotta dalla Riccò nel suo testo “sentire il design” è riportata come opera architettonica in cui si conciliano, appunto, registri visivi, uditivi, tattili, propriocettivi e vestibolari.

E lo studio preparatorio a questo esame ha certamente fatto si che i miei sensi, tutti, si rendessero conto in modo più forte, della loro convivenza reciproca nel mio vivere quotidiano.