Riforma della scuola? Cominciamo da qui 2

 Aurelio Di Matteo

Non c’è stato Ministro che non abbia esordito, dichiarandolo con mediatica prosopopea, di operare la “riforma della scuola”. Ad eccezione di Luigi Berlinguer (Autonomia scolastica) e di Letizia Moratti (Riforma dei Cicli e Alternanza Scuola-Lavoro) che vararono due riforme sostanziali, inefficaci perché lasciate senza le altre di accompagnamento, degli altri Ministri solo il 10% degli operatori scolastici ricorda il nome, secondo le risultanze di un’indagine sondaggio. Gli è che tutti gli interventi dei Ministri che si sono avvicendati sono serviti solo a deteriorare ciò che di valido c’era o a far precedere il sostantivo Scuola da un aggettivo – “buona” – tanto inutile quanto falso. La scuola, se tale è, per definizione e per se stessa non può non essere che buona! Diversamente sarebbe solo un non-luogo.

Ecco perché la domanda: a quando una vera riforma?

Girovagando sul web, diventato ormai lo spazio dell’enciclopedia e dell’informazione a portata di mano, mi soffermo sull’ampio e scientificamente approfondito annuale rapporto fresco di stampa – 18 dicembre 2018 – elaborato dal CNEL, Ente ritenuto inutile da una improvvida tentata revisione costituzionale. Il titolo sembra non avere niente a che vedere con la scuola: “Il benessere equo e sostenibile in Italia (BES)”. Non è così.

Le pagine, le analisi e le diagnosi più interessanti sono centrate su istruzione e formazione, cultura, innovazione, ricerca e creatività. Questo studio ritiene giustamente che l’istruzione sia una risorsa personale fondamentale per conseguire e gestire il benessere. I percorsi formativi svolgono un ruolo essenziale nel fornire agli individui le conoscenze, le competenze e le abilità necessarie per partecipare attivamente alla vita della società e all’economia del Paese. Istruzione e formazione rappresentano uno degli indicatori principali per un’indagine sulle condizioni di un Paese, secondo le nuove teorie che ritengono gli indicatori del PIL ormai insufficienti a individuare i problemi dello sviluppo economico e sociale.

Sono queste pagine a richiamarmi al vecchio mestiere e a ridestare i sopiti sentimenti d’indignazione che hanno riempito gli ultimi anni del mio consueto lavoro. Per evitare equivoci: nulla contro i docenti e gli altri operatori della scuola, ma molto contro i responsabili istituzionali, i politici e i sindacalisti, abbastanza con i genitori. Sono queste categorie, infatti, che da sempre insorgono a difesa di una scuola che non c’è, trasformata progressivamente in Centro per l’impiego, in parcheggio per bambini, prima, di adolescenti dopo e, infine, per giovani iper protetti. E volete che i docenti non risentano di queste istanze e queste condizioni e, di conseguenza, non assumano posizioni ad esse coerenti?

I risultati? Sono tutti in questo rapporto. Anzi lo sono stati più ancora in quello elaborato nel 2013, nel quale un linguaggio scevro da eufemismi dava maggiore e chiara consapevolezza dei problemi.

Nello stesso tempo apprendo di uno studio – impensabile in Italia – riferito a 15 Paesi, elaborato in questi anni in Inghilterra, riguardante i figli che vanno a scuola da soli o accompagnati.

Sono due fotografie del modo in cui sono visti la scuola, il suo rapporto e ruolo nella società e la sua funzione nella crescita formativa dei giovani; due fotografie da un lato deprimenti e dall’altro scientificamente valide per chi voglia una seria riforma della Scuola che dia soluzioni alle profonde criticità del nostro sistema d’istruzione e formazione a tutti i livelli. Purtroppo il CNEL, che nel panorama internazionale è considerato un organismo di eccellenza, dal nostro Parlamento è ascoltato come il Grillo parlante da Pinocchio. E non è che trovi ascolto e attenzione in altri luoghi. La stampa e i media non sono da meno.

Istruzione e benessere vanno di pari passo, ma l’Italia non è ancora in grado di offrire ai giovani la possibilità di un’educazione adeguata. Il divario rispetto alla media europea e il fortissimo divario territoriale interno si riscontrano in tutti gli indicatori che rispecchiano istruzione, formazione continua e livelli di competenza. Anche la partecipazione culturale – spettacoli fuori casa, visite ai Musei, monumenti e mostre, lettura dei quotidiani – è in diminuzione, anche dove era più elevata, e colloca l’Italia agli ultimi posti in Europa. La situazione è ancora più grave se riferita alle differenze territoriali che vedono il gap del Mezzogiorno inalterato, anzi per alcuni indicatori peggiorato. E all’interno del Mezzogiorno la Campania si colloca quasi per tutti gli indicatori negli ultimi posti.

In questo deprimente quadro di sintesi, tratto testualmente dal Rapporto, quello che più deve far riflettere sono le risultanze dell’indicatore relativo alle competenze alfabetiche e linguistiche. Ancor più grave che per queste il punteggio degli Istituti tecnici del Nord sia superiore a quello dei Licei del Mezzogiorno.

Rimane miseramente stabile la quota di italiani in possesso di competenze digitali – il 19,5% della popolazione di 16-74 anni, un dato ancora distante da quello (28%) registrato negli altri paesi europei.

La quota dei lavoratori italiani con formazione universitaria occupati in professioni scientifico-tecnologiche è notevolmente inferiore alla media europea (rispettivamente 16,1% e 22,6%) e colloca l’Italia al terzultimo posto. Dietro di noi soltanto Slovacchia e Romania.

I dati del programma di valutazione internazionale degli studenti promosso dall’Ocse (PISA) mostrano che le competenze dei quindicenni italiani nella comprensione dei testi e nelle scienze si collocano ancora molto al di sotto della media dei paesi Ocse.

Decisamente negativi i segnali sulla capacità dell’Italia di attrarre occupazione altamente qualificata e di favorire prospettive di occupazione per i laureati italiani. Il tasso di mobilità dei laureati italiani continua ad essere negativo, indicando una perdita netta a favore dei paesi esteri e proseguendo il trend degli ultimi anni. In sintesi risulta ancora molto lontano (15% !!!) l’obiettivo di Europa 2020.

È una fotografia desolante della scuola pubblica che sindacati e forze politiche si ostinano a difendere per mantenere inalterati strutture organizzative, ritualità didattiche, rapporti di lavoro, insindacabilità di operato e funzione, sperpero di denaro erogato dall’Europa per attività più ludiche che formative e per dotazioni inutilizzate o solo di orpello durante gli open day.

E in tutto questo, le famiglie? La fotografia è fornita dalla citata ricerca elaborata dal Policy Studies Institute di Londra. In Italia gli studenti della fascia dell’obbligo che si recano a scuola da soli rappresentano il 7% e la percentuale di quelli che, sempre da soli, prendono i mezzi pubblici scende al 3%. Al confronto le percentuali del Regno Unito e della Germania salgono rispettivamente al 41 e 40 %, al 25 e al 64 %.

Indipendentemente dalle risultanze di questo studio, allo scrivente che periodicamente trascorre qualche settimana a Londra e, da buon “nonno italiano”, accompagna le nipotine a scuola, non sfuggono due cose: bambini che percorrono a piedi lunghissimi tratti di strada, con il clima non certo mediterraneo, e i tanti che lo fanno da soli. Lascio ai miei cinque lettori il confronto con gli ingorghi di auto strombazzanti e di mamme apprensive in orario scolastico, soprattutto le modalità di “partecipazione” dei genitori italiani ai “dibattiti” e agli organismi di partecipazione scolastica!

All’eliminazione dell’Esame di Stato e del suo valore legale quali primi strutturali interventi per un inizio di seria Riforma scolastica, di cui parlavo in un precedente intervento, aggiungo la Collegialità “coatta”, fardello lasciato in eredità dalla sessantottina concezione assembleare della partecipazione.

Può una scuola reggere a questo inutile percorso fatto di chiacchiere, di interminabili documenti riempiti di aria fritta e di enorme tempo sprecato?  In quasi tutte le scuole europee non esiste nemmeno una parvenza della collegialità all’italiana. Nel peggiore dei casi ci si limita al Consiglio d’Istituto, espressione questo di concreta e vera autonomia dell’Istituto. Eppure la “presenza” dei genitori è continua, ma con altre modalità e finalità.

Con il passare degli anni in Italia si sono introdotti sempre nuovi organismi, fino a raggiungere, tra quelli interni, quelli sindacali e quelli esterni, una rete che conta il ragguardevole numero di oltre venti Organi di partecipazione collegiale. Può una scuola reggere a questo inutile percorso fatto di chiacchiere, di interminabili documenti riempiti di aria fritta e di enorme tempo sprecato?