Tra razionalità e passione: la religione laica di Giancarlo Mazzacurati

Piero Lucia

Nell’estate del 1995 si concluse prematuramente l’intensa esistenza di Giancarlo Mazzacurati, grande studioso della Letteratura e inimitabile maestro di generazioni di studenti. Un finissimo critico della storia letteraria Italiana, europea e mondiale, ed un intellettuale militante.

La sua vita trascorse, in ampia parte, nelle aule delle università italiane ad educare i giovani all’amore per il sapere e per la libertà.

Nato a Padova era vissuto, fino all’età di 18 anni, tra questa città e Ferrara- luogo d’origine della famiglia paterna- con una breve parentesi a Pisa, la città della madre.

Immediatamente dopo il conseguimento della maturità classica, si trasferì coi suoi familiari a Napoli e qui trascorse un lungo periodo, pluridecennale, culturalmente e umanamente assai intenso, ricco e stimolante, seppur segnato- come si vedrà- da un’onda ambivalente, densa di fulgide speranze e anche, purtroppo, da amare e inattese delusioni.

Giancarlo proveniva da una famiglia benestante della buona borghesia del Nord, col padre titolare di una grossa impresa edile impegnata nella costruzione di dighe, ponti e strade in medio-oriente. E tuttavia, giunto a Napoli, Giancarlo scelse un’altra via, molto diversa da quella immaginata dell’impegno diretto nell’azienda di famiglia, ed optò invece per gli studi umanistici nella facoltà di Lettere moderne dell’Università Federico II.

Qui avvenne l’originale processo di strutturazione della sua formazione ed ebbe inizio l’azione di trasmissione- colta e raffinata- ai giovani studenti con cui entrava in relazione del ricco sapere con perseveranza e severo sacrificio accumulato.

Ben presto, e assai giovane, divenne assistente di Salvatore Battaglia, grande e prestigioso filologo, linguista, grammatico e critico letterario nella facoltà di Lettere della Federico II.

Uomo particolarmente duttile e colto nelle sue discipline, schivo, sensibile, appassionato e attento alle evoluzioni, anche quelle più lievi e impercettibili, dei comportamenti sociali e delle più minute articolazioni della produzione dei diversi autori della letteratura.

Mazzacurati rappresentò, a quel tempo e per più versi, come si cercherà di raccontare, una graffiante anomalia nel panorama ufficiale della cultura e della letteratura italiana a lui contemporanea. A Napoli collaborò anche a collane editoriali di grande prestigio culturale come “Letterature” e diresse, con Vittorio Russo e Antonio Palermo, sempre per la Casa Editrice Liguori, “Le forme del significato”. Particolarmente intenso e coinvolgente quel periodo, e denso di un forte pullulare di passioni, in Italia, in Europa, nel mondo.

Erano infatti gli anni intercorsi tra la fine della contestazione giovanile, col crollo delle palingenetiche illusioni sul prossimo, inevitabile stravolgimento della storia umana antecedente e l’affermarsi invece – anche dal punto di vista dei comportamenti più squisitamente culturali- dell’accelerato avvio di una secca, progressiva e repentina involuzione, segnata da un’acquiescenza passiva e da una subalternità, raccapricciante e piatta, di molti intellettuali ai poteri forti costituiti.

Il professore Mazzacurati, qui l’anomalia, invece di certo non potè mai essere inscritto nel novero di coloro che, regredendo dall’impegno etico, politico e culturale originariamente e consapevolmente assunto, scelsero d’indietreggiare ambiguamente, optando per il disimpegno, e per tranquille scorciatoie individualmente ben più gratificanti.

Provava anzi un senso di acuta repulsione, e di fortissima distanza, per quel processo degenerativo deteriore, di spasmodica ricerca, di gruppi intellettuali- sempre più diffusi- della gratificazione professionale personale, rivolta all’esclusivo approdo ai punti più “forti” del potere accademico, dentro i santuari delle Università o della Pubblica Amministrazione.

A quei miseri giochi accademici, alle cui pratiche non fu mai capace di abbassarsi, egli invece restò sempre assolutamente estraneo.

Essi, gli intellettuali, in specie meridionali, in larga maggioranza, ritessendo un perverso rapporto “ideale” con il peggio della propria colpevole funzione nella pregressa storia nazionale antecedente, avevano alla fine colpevolmente rinunciato a svolgere un ruolo di pungolo critico permanente verso il potere economico e politico diffusamente stratificato, di costante sollecitazione e di rinnovamento etico e civile. Ed avevano anzi a un certo punto scientemente optato, per meschini interessi individuali e di ceto, per l’adesione acquiescente al modello economico, politico e culturale che- a partire dall’inizio degli anni ’80- si era radicato e strutturato sempre più saldamente, in via molecolare, nelle diverse pieghe della società italiana, indiscriminatamente anche concorrendo a dissipare grandi risorse finanziarie del paese. Proprio del tutto antagonista quella visione e quella prassi alla sua austera concezione secondo cui la spesa pubblica andava invece rigorosamente indirizzata, in maniera assai selezionata, soltanto dove se ne riscontrasse oggettivamente l’urgenza e la necessità, in relazione a un ambizioso progetto di futuro. Era seccamente ostile e contrario alla crescita dissennata della spesa, nel mentre, al contrario- nel Mezzogiorno e nel paese- servivano con urgenza cose precise ed essenziali, più aule, scuole e laboratori nuovi.

Una concezione che era frontalmente ostacolata da un robusto e vigoroso potere, che appariva ormai sostanzialmente inscalfibile. E tuttavia la rovinosa deriva che era stata intrapresa non era a suo avviso inevitabile. Nell’immediato, secondo dopoguerra, anzi, gli intellettuali democratici italiani, all’indomani della tragica esperienza della dittatura, ripensando alla loro esperienza pregressa, di sostanziale fiancheggiamento al potere autoritario precedente, avevano avviato un diffuso e radicale lavacro purificatore per imboccare un’altra strada, di rottura e di rigenerazione radicale, etica, politica, morale.

Essi, in larga parte, avevano optato per una via del tutto opposta e alternativa, quella della democrazia e del rinnovamento profondo della società italiana, in senso più avanzato e progressivo. Uno straordinario filone questo, di ricerca teorica e politica, di fitta e feconda produzione di pensiero, che sarebbe quanto mai opportuno, ancora oggi, riscoprire ed indagare in maniera ben più rigorosa e approfondita. Mi capitò, proprio in quegli anni, e in diverse occasioni, di dialogare e confrontarmi con lui, con intensità e passione, su un ventaglio di argomenti vari e stimolanti e a un certo punto- di comune intesa- al momento della scelta dell’argomento della mia tesi di laurea, l’opzione cadde- quasi naturalmente- proprio sull’utilità di una ricerca sull’evoluzione del pensiero degli intellettuali italiani d’avanguardia nell’immediato secondo dopoguerra. Si sarebbe trattato di tentare una ricostruzione, seppure necessariamente a grandi linee, di quella storia peculiare riferendosi all’autenticità accurata delle fonti.

Iniziai allora, su suo suggerimento, l’esame dei contenuti di alcune delle più intriganti e stimolanti riviste letterarie apparse nel paese immediatamente dopo il ritorno della libertà. Le riviste, uno strumento straordinario, di larga diffusione, decisivo per ricostruire un nuovo spirito pubblico, una nuova identità della Nazione.

Sullo sfondo, l’inesauribile ricchezza delle “Lettere” e dei “Quaderni dal carcere” di Antonio Gramsci, immensa e incalcolabile miniera di pensiero appena da poco tornata in emersione. Sfogliando con pazienza, per citare solo pochi di quei fogli, “Rinascita”, “Studi Storici”, “Critica Marxista”, “Mondo Operaio”, “Civiltà Cattolica”, “Il Mondo” di Mario Pannunzio, Francesco Compagna, Eugenio Scalfari e Giuseppe Galasso o “Il Ponte” di Piero Calamandrei e “Critica Liberale”,

“Democrazia Liberale” e “Battaglie Democratiche” e poi le riviste meridionalistiche per decenni più prestigiose e più seguite,  “Cronache Meridionali”, su cui apparivano gli scritti di  Giorgio Amendola e Gerardo Chiaromonte, con Giorgio Napolitano e Francesco De Martino, e “Nord e Sud”, con i numerosi contributi di Vittorio De Capraris, Francesco Compagna, Rosario Romeo, Pasquale Saraceno, Nello Ajello fino al “Politecnico” di Elio Vittorini, si comprendeva sempre di più e meglio il senso più profondo della centralità della diffusione della conoscenza e dell’imprescindibile necessità della crescita di un nuovo concetto di cultura popolare. A tal proposito, un contributo di straordinario rilievo era fornito, settimanalmente, dal “Calendario del Popolo”, un mezzo prezioso di capillare diffusione della conoscenza e della cultura italiana, europea e mondiale tra le classi popolari. Si cercava, usando uno strumento d’immediato impatto coi ceti popolari, d’iniziare a ricomporre alacremente, dopo una frattura ventennale- uno dopo l’altro- i pezzi principali di una storia originale, ritessendo una trama tra passato e presente, un filo di ricongiunzione e di compattamento in grado di ridare un’identità alla Nazione.

Operazione questa di sicuro non semplice e scontata nei suoi futuri approdi ed in avvio senz’altro influenzata, anche nelle file dell’intellettualità di sinistra, dal pensiero, dalla concezione del mondo e dalla filosofia di Benedetto Croce.

Al potenziale lettore si dischiudeva, un passo dopo l’altro, un nuovo mondo sconfinato, si percepiva una diffusa, straordinaria volontà d’impegno e una fondata speranza nella possibilità concreta di grandi e profondi cambiamenti.

Le riviste di quel tempo non a caso raccoglievano le firme della migliore intellettualità italiana, di letterati, storici e filosofi, di fini politici e di uomini di scienza, dei più diversi e vari orientamenti. Un’autentica, inesauribile miniera, di competenze e di saperi ad ampio spettro, da cui attingere, continuamente e a piene mani, per costruire- in un’azione tenace e di lunga durata- una nuova, diversa e più giusta società, una democrazia più robusta ed includente, una “democrazia di tipo nuovo”, mai prima sperimentata nel Paese.

In quel frangente, su suo suggerimento, iniziai ad approfondire, tra le varie riviste, in modo più monografico e accurato, proprio “Il Calendario del Popolo”.

Il foglio, nato a Roma il 29 marzo del 1945, diretto da Giulio Trevisani e poi più avanti da Carlo Salinari, conteneva un’enorme quantità di contributi, nei più diversi campi del sapere, molto spesso di elevata qualità. Utilizzava un linguaggio semplice, immediato ed essenziale, prontamente recepito dal lettore.

Quella pubblicazione in sostanza si poneva l’obiettivo di stabilire un’immediata e feconda relazione tra intellettuali e popolo, tra avanguardie del mondo del pensiero e operai, braccianti, contadini. La rivista raccolse, durante l’intero arco della sua vita, saggi e articoli del meglio dell’intellettualità italiana, europea e mondiale.

Oltre all’avvio della diffusione del pensiero teorico di Antonio Gramsci, la messa in circolo di enormi competenze, di firme prestigiose nei più diversi campi del sapere, umanistico e scientifico. Tra i tanti contributi, per limitarmi a ricordarne in questa circostanza solo alcuni, quelli di Antonio Banfi e di Lucio Lombardo Radice, promotori di una specifica collana per la scienza e di Massimo Mila per la musica, di Luigi Russo, Giulio Einaudi, Valentino Bompiani, Giulio Trevisani, Vasco Pratolini e Salvatore Quasimodo per la letteratura e la poesia, di Carlo Lizzani, Pietro Germi e Cesare Zavattini per il cinema. S’iniziò a riscoprire i racconti di Franz Kafka, James Joice, Marcel Proust e a recensire le opere di più autori, da Lewis Jacobs a Freud, da Jean Paul Sartre ad Albert Camus, da Thomas Mann a Ila Ehrenburg a Sergej Esenin, Majakovsky, Gogol, Dostoevsckij.

Uno nuovo e ampio sguardo sul mondo, privo di confini e di steccati e capace di destare stupore e ammirazione.  Alla fine, grazie alla consultazione di quel ricco e prezioso materiale, riuscii con il suo aiuto a portare in emersione un lavoro fino ad allora sostanzialmente inedito, e molto stimolante, poi più avanti ripreso da chi scrive in una pubblicazione più organica e compatta.[1]   (1)

 



[1] Piero Lucia, Intellettuali Italiani del secondo dopoguerra, Guida Editore, Napoli 2003