Al via anno scolastico: sovraffollamento e digitalizzazione

Amedeo Tesauro

Un vecchio mantra sostiene che non esista intervento sull’istruzione privo di critiche e proteste. Siano esse provenienti dagli insegnanti o dagli alunni, immancabili i cortei studenteschi dopo ogni riforma, toccare la scuola significa mettere le mani lì dove scotta. Ecco allora che l’inizio del nuovo anno scolastico ripropone vecchie e nuove problematiche, ennesimo banco di prova per il governo della “svolta buona” renziano. Innanzitutto la questione insegnanti, con le 15mila assunzioni promosse dal governo che però, dicono i maligni, servono solo a rimpiazzare chi va in pensione. Certo non è una questione di poco conto, non nella scuola italiana che torna ad incrementare il numero di iscritti (64mila in più tra lo scorso anno e quello appena iniziato) e vede lo stesso numero di insegnanti, col risultato che per ogni professore vi sono il 15% in più di alunni alle primarie e 22% alle medie (dati Ocse). Le cosiddette classi-pollaio si consolidano come realtà pittoresche al limite della farsa, classi di quasi o oltre trenta studenti in barba ai limiti di sicurezza e alle reali possibilità di un apprendimento efficace. In un contesto del genere appare paradossale parlare di scuola digitale, la nuova frontiera dell’insegnamento che sa tanto di lontana utopia . Matteo Renzi col solito piglio deciso ha insistito sul tema nel documento programmatico relativo alla scuola, evidenziando persino l’inefficienza di certe misure prese in passato: inutile cercare di dare un tablet ad ogni studente, meglio investire su reti e connessioni. Non è un pensiero malvagio, va detto, puntare sugli hardware significa infatti puntare su tecnologie destinate a divenire obsolete in poco tempo, meglio impegnarsi prima nella realizzazione delle opere basilari e solo poi ragionare su questioni ulteriori. Tuttavia non risolve o rende la situazione più rosea, non economicamente parlando. Se il governo non ha presentato cifre nell’esporre le proprie intenzioni, i conti li ha fatti il Censis che ha parlato di 650 milioni di euro all’anno per realizzare tutti gli obbiettivi prefissati, stabilendo in 7,90 euro il costo mensile in bolletta per ogni studente. Troppi in un paese che arranca e fa i salti mortali per trovare il denaro necessario a finanziare gli interventi strutturali di cui ha bisogno. Tuttavia nemmeno si può sempre guardare alla scuola come un ambito secondario sul quale è possibile non spendere e non investire: l’Ocse fornisce un quadro disarmante, denunciando che la somma degli investimenti compiuti nella digitalizzazione equivalgono allo 0,1% della spesa pubblica totale, praticamente nulla. Considerando pure i dati annuali sul PIL speso per l’istruzione (poco più del 4% contro una media europea che passa il cinque), non sorprende l’affermazione per cui vi è un gap di quindici anni tra la nostra scuola e quella dei paesi avanzati. Il nuovo anno scolastico parte dunque tra le amare riflessioni sui dati reali e le consuete promesse di cambianti strutturali che rendano al passo coi tempi l’istituto scolastico. Cambiamenti avviati non per far bella figura, ma spinti dalla convinzione di investire sulla formazione.