Otto marzo: ritualità e problemi
Sono trascorsi centocinque anni da quel tragico otto marzo 1908 che Rosa Luxemburg volle istituzionalizzare come giornata di lotta internazionale per la liberazione delle donne dallo sfruttamento, per l’emancipazione da culture e religioni che riservavano loro un ruolo di subalternità, di emarginazione, di strumento di produzione e di riproduzione, di oggetto passivo di piacere, di mezzo asessuato e trasfigurato per consentire all’uomo l’agevole cammino per la salvezza e l’appagamento spirituale o di premio e ricompensa per azioni eroiche e meritorie. Il ricordo delle 129 operaie arse vive all’interno della fabbrica Cotton di New York fu preso a simbolo da movimenti ed associazioni femministe e celebrato annualmente quale momento di lotta per l’emancipazione ed il riscatto della donna. Nel corso degli anni la ricorrenza è diventata altro: lotta per la liberazione sessuale, per l’emancipazione dal ruolo di mamma e di angelo del focolaio, per il diritto all’aborto, alla pillola e quant’altro. Il cammino del movimento femminista è senz’altro costellato da grandi battaglie civili coronate da altrettanto grandi conquiste sociali, che hanno visto il concorso e la partecipazione dell’universo maschile perché erano battaglie non soltanto al femminile ma lotte per l’affermazione di diritti civili fondamentali per la dignità e libertà umane tout-court. Lentamente questo simbolo ha perduto i suoi profondi significati per diventare occasione annuale per manifestazioni politiche contro un governo non gradito o esaltazione e rivendicazione di spazi di “trasgressione”. In un caso e nell’altro, l’otto marzo si è colorato della tipologia, dei vizi e dei difetti propri dell’universo maschile, assumendo atteggiamenti, comportamenti e iniziative che sono speculari o comuni a quelli della cultura maschilista che si voleva combattere: spogliarelli maschili, locali per sole donne, notte esclusive e slogan politici che con i problemi della donna e della sua condizione hanno pochissimo a che fare. E su tutto questo un mare giallo di mimose per la gioia dei fiorai, cene e spettacoli solo al femminile per la gioia di ristoratori e impresari, festività aggiuntive per la gioia di docenti demotivati e alunni svogliati e disinteressati. Da quando nel 1835 nacque in Inghilterra il movimento delle suffragette e nel 1866 la Svezia, per la prima volta in Europa, ammise le donne al voto, il ruolo della donna nelle società democratiche occidentali ha conquistato il pieno riconoscimento giuridico nei diversi settori della vita civile, ma manca ancora molto affinchè il principio dell’uguaglianza sia per tutti stile e pratica di vita quotidiana. E non si chiami in causa come grande conquista dell’universo femminile la legge dello stalking, che da un lato non ha impedito il femminicidio, fenomeno in preoccupante aumento, e dall’altro è normativa che riguarda tutti gli aspetti e i settori delle attività umane. Analogamente non si consideri un successo e un segno di mutamento della condizione femminile l’aumentato numero di parlamentari donne. In Italia il vero problema delle donne è, invece, evidenziato da due dati: le cifre del censimento ISTAT 2011 e la constatazione che non c’è un’acquisizione culturale diffusa della parità a prescindere. Anche il comune lessico, peraltro usato anche da ministri donne che nell’ultimo governo si sono poste come leader di emancipazione, è emblematico del provincialismo e dell’insufficienza delle soluzioni affidate a provvedimenti legislativi. Che il problema sia innanzitutto culturale, lo dimostra proprio il lessico usato dalla Fornero, il ministro della “paccata di miliardi” e della svista degli esodati, quando per sottolineare l’attenzione dovuta all’universo femminile fece la famosa uscita: “gli uomini devono aiutare di più nelle faccende domestiche”. In questa espressione c’è il più becero maschilismo come diffusa cultura quotidiana. Come dire che il ruolo della donna è quello della casalinga, alla quale gli uomini “potrebbero” anche dare un aiuto! Se un ministro, per di più donna, parla così, non ci sono leggi che servano. E i dati dell’Istat confermano. Siamo un Paese di casalinghe – se ne contano circa cinque milioni con riferimento alla fascia di età tra i 15 e i 64 anni – di fatto uguale a quello degli ultimi anni del secolo scorso e, per quanto riguarda il Sud, in costante e preoccupante arretramento, fino a portare in questi ultimi dieci anni il numero delle casalinghe a superare quello delle occupate. Insomma il nostro è un Paese che non cresce economicamente e non cambia socialmente a differenza dal resto dell’Europa. Le politiche a favore della donna, di conseguenza, non si attuano nè con le quote rosa, nè con lo stalking, nè con le ricorrenze festaiole, tanto meno con i retorici discorsi, subdolamente maschilisti, di senili politici istituzionali. L’otto marzo non contribuisce a promuovere la dignità della donna, con la sua stanca e consumistica ritualità, con le iniziative trasgressive che nascondono un inconscio desiderio di apartheid, con i neo-movimenti femministi che hanno sostituito le piccole lotte del provincialismo politico alle grandi battaglie per l’affermazione dei diritti universali in ogni luogo ove siano calpestati. Sarebbero da fare, invece, le grandi battaglie culturali, ma non il giorno dell’otto marzo; battaglie per una diffusa consapevolezza e pratica quotidiana dell’uguaglianza a prescindere, battaglie che dovrebbero vedere uomini e donne insieme, come è giusto che sia. Si eviterebbe una ritualità non utile all’universo femminile, nè ci sarebbe bisogno che il Parlamento voti leggi a garanzia di quote di rappresentanza delle donne, sia politica sia istituzionale, come avveniva, fatte le dovute differenze, con la rappresentanza delle riserve indiane. Anche perché, di riserva in riserva, ci si avvierebbe su una strada che, escludendo, di fatto, le pari opportunità, sancisce il criterio della riserva come principio universale di salvaguardia dei diritti civili. C’è qualcuno che ricordi un ordine del giorno votato dal Parlamento nel 2003 che impegnava il Governo a recepire con Decreto legislativo sulla scuola “a studiare forme di incentivi al fine di incoraggiare il reclutamento di insegnanti maschi, in particolare nel ciclo secondario”, per equilibrare quell’80% di donne di cui è costituito il corpo docente? Ecco dove potrebbe portare una rivendicazione al femminile sancita “per legge” e non una progressiva e diffusa azione culturale rivolta a permeare il pensare e l’agire quotidiano nei quali uomo e donna si riconoscano e siano considerati come cittadini partecipi di un comune tessuto economico e sociale.