Verso le elezioni: populismo e antipolitica

  Aurelio Di Matteo

Ci avviciniamo alle elezioni. Quanti, come me, sono tentati dal non voto? Anche perché è tanta l’insistenza sull’antipolitica. Una falsificazione! Come le tante altre che caratterizzano le prossime elezioni e il dibattito politico dell’ultimo anno. E come spesso è capitato nel passato si assiste alla sagra delle truffe semantiche: il porcellum legge elettorale pessima, la medietà come salvezza, le liste pulite come panacea, l’estremismo da “silenziare”, l’agenda come nuova bibbia e così di seguito fino a giungere a quella, che tutte le altre riassume e ricomprende e che di fatto è l’obiettivo al quale mirano i detentori dell’attuale potere. Accordo tra forze politiche di diversa collocazione al fine di “stabilizzare” gli attuali assetti dei rappresentanti politici! Uso semantico nuovo per contrabbandare scelte e collocazioni già ampiamente viste, sperimentate o almeno accettate da tutti. Una volta la medietà si chiamava interclassismo e s’identificava con la Democrazia Cristiana, la collaborazione tra forze politiche diverse si denominò “compromesso storico” per chi lo sostenne e inciucio per chi l’ostegggiò, gli estremisti correttamente si dividevano in exstraparlamentari e in massimalisti, l’agenda si chiamava semplicemente “programma”, tutte le leggi elettorali di volta in volta sono state ritenute pessime, i popolusti erano grandi capi di Stato o grandi rivoluzionari. Sperando che nessuno si adonti per il parlar chiaro, dopo i precedenti interventi, voglio portare l’attenzione proprio su quest’ultima truffa semantica che sta connotando le prossime elezioni. Il populismo è di certo uno degli argomenti centrali di quest’anticipata ma lunga campagna elettorale. Tant’è che tra le motivazioni – si fa per dire! – che il premier Monti ha addotto per giustificare la sua “svolta politica” c’è quella di “fare argine contro il populismo, di destra e di sinistra”. Anche gli studiosi di Scienze politiche usano spesso il lemma “populismo” in modo non univoco. Che nel suo uso ci sia mistificazione è rilevabile innanzitutto dalla constatazione che esso è attribuito sia da destra sia da sinistra, sia in modo tecnico sia in modo demagogico. Molto tempo fa, quanto aveva colto nel segno Pier Paolo Pasolini! Egli con essenzialità e chiarezza poetò: “Se ora dà il suo amore/ populista ai poveri/è perché è fascista/ ma lo stesso amore/populista darà/ se sarà comunista/perché la verità/è ambigua, non mista”. Come dire, quando non si sa che pesci pigliare né si hanno risposte credibili, si ricorre al termine populismo. E a questa truffa semantica, per rinforzo, si aggiunge anche il termine antipolitica. Si dimentica, in verità, che il populismo fu un grande movimento di pensiero e di azione; che ispirò una poetica letteraria che espresse alcuni capolavori della narrativa mondiale; che in Russia precedette la rivoluzione leninista. E Lenin, che di rivoluzione e di cambiamenti se ne intendeva, non demonizzò il populismo, ma ne colse l’aspetto essenziale come lotta a quanto di negativo aveva allora lo sviluppo del capitalismo. Si dimentica che “populisti” sono stati grandi capi di Stato o grandi rivoluzionari: Peron, Castro, i rivoluzionari russi e americani di fine Ottocento, senza dimenticare il socialismo africano di J. K. Nyerere, il nazionalismo indonesiano e quello egiziano di Nasser ecc. E non fu, per tanti versi, un populista anche Gandhi? E non lo sono i tanti movimenti ecologisti, le leghe e tutti i gruppi costituitisi per specifiche e settoriali battaglie? Insomma un variegato mondo politico di ieri e di oggi che, piaccia o non piaccia, rappresenta e concretizza le istanze e i problemi di grandi masse di cittadini. Lo aveva ben capito Gramsci, uno dei padri della sinistra comunista italiana, quando, con riferimento all’attività critica di Francesco de Sanctis, riconosceva nel populismo “l’andare al popolo di alcuni gruppi intellettuali sullo scorcio del secolo scorso dopo il tramonto della democrazia quarantottesca e l’avvento di grandi masse operaie per lo sviluppo della grande industria urbana”. Insomma, l’ideologia populista è indissolubilmente legata sia alle “masse” sia all’intellighenzia! Sollecitare il comune sentire e la normalità del vivere quotidiano, dare voce alle esigenze inascoltate e alla legittima indignazione dell’uomo della strada è grave atteggiamento politico da demonizzare? Rivolgersi al “popolo”, baipassare la barriera della politica incartapecorita e autoreferenziale, introdurre nella comunicazione politica un po’ di democrazia diretta e un po’ di ascolto e partecipazione dell’agorà è così pericoloso da giustificare una “salita in politica” a difesa della turris eburnea degli equilibri politici consolidati? Perché non riconoscere che il tanto denigrato populismo altro non chiede che un sistema istituzionale più efficace e trasparente, decisioni e scelte verificabili e controllabili, eliminazione di privilegi e caste, come avviene nelle grandi democrazie a noi prossime, sia liberali sia socialdemocratiche? E soprattutto chiede che la classe politica e i partiti non siano una struttura consolidata del funzionamento dello Stato a tutti i livelli, dal potere centrale a quello locale. Se questo è populismo, allora lo fu anche Enrico Berlinguer che, ponendo la questione morale, per prima cosa chiedeva ai partiti di non occupare lo Stato. La demonizzazione del populismo viene a completarsi – sempre nell’accezione semantica truffaldina – coniugandosi con l’altro lemma che in quest’anno ha arricchito il vocabolario politico: antipolitica. Tutto ciò che non è gradito ai politici che attualmente siedono in Parlamento viene spregevolmente denominato antipolitica. Come il populismo, anche l’antipolitica non è cosa nuova, anzi molto antica. È tutto scritto in Platone! Già per il filosofo greco il contrasto tra politica e antipolitica non è da demonizzare. Chi oggi afferma questo e ne fa oggetto di comunicazione politica, strumentalizza un lemma solo per concretizzare un’altra truffa semantica, per nascondere il sacrosanto richiamo a ciò che la politica è: una medicina che cura ma non guarisce, un farmaco che ritarda la morte ma non ti salva la vita. Insomma l’antipolitica è l’illusione profonda – ma salutare – del cittadino di un suo ritorno all’Eden, dove possano essere realizzati con legislazione adeguata e con rispetto e pacificazione la reciprocità dei rapporti, per affermare uno Stato fondato sulla giustizia. Tutto questo fu visto in modo esaustivo nell’elaborazione teoretica di Platone. La concreta vita politica dell’agorà si definiva e si esercitava in questo continuo contrasto tra politica e antipolitica da cui scaturiva il dialogo vero della democrazia. La differenza con l’oggi non è da poco. Lì era detto in modo costruttivo e dialogicamente propositivo; qui è semanticamente strumentalizzato a difesa di una casta. Di fatto si dimentica – o si vuole dimenticare – che la politica non è il rimedio per eliminare ogni deficienza e ogni mancanza, ogni lesione del diritto di un cittadino di realizzarsi nella sua pienezza, ma soltanto un limitato strumento per ovviare alle deficienze e che, per ovviare a queste, ne può creare di nuove. Se questo fosse ricordato, evitando la truffa semantica, forse la politica potrebbe trovare un po’ del suo retto sentiero e l’antipolitica, anziché essere demonizzata, sarebbe ascoltata e resa aderente alla realtà.