Mezzogiorno in cifre: 400 anni di divario tra Nord e Sud

Amedeo Tesauro

Presentato il 26 settembre, l’annuale rapporto SVIMEZ (Associazione per lo Sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) basato sui dati del 2011 stila le cifre della realtà meridionale delineando un drammatico quadro in cui le crisi pesano di più e le riprese si realizzano con estenuante lentezza; uno studio a tutto campo con la certezza che la proverbiale palla al piede del paese sia la chiave per un rilancio a livello internazionale. Il lavoro è il tema portante, col tasso di occupazione che si assesta al 44% al Sud e al 64% nel Nord Italia, nel quadro generale di una crescita inferiore di mezzo punto al Meridione. L’allarme è centrato su una possibile desertificazione industriale del Sud Italia, con riferimenti espliciti alle vicende dell’Ilva di Taranto e degli stabilimenti FIAT, in un territorio che nel giro di un triennio (2008-2011) ha visto 266 mila unità di lavoro in meno sulle 437 mila perse in tutto il Paese, una concentrazione definita “impressionante”. Ma gli scarsi dati occupazionali sono soltanto lo specchio di una struttura lavorativa che nega possibilità ai giovani e alle donne, categorie indicate come potenziali chiavi di volta. Qui i dati sono ancor più scoraggianti, a partire da quel -20 % di nuovi assunti al Sud confrontato col -2 % del Nord, numeri che esplicano il cortocircuito esistente tra le istituzioni atte a creare nuovi professionisti e la realtà concreta del mercato del lavoro. Le università finiscono giocoforza al centro del mirino, ritenute inadeguate a formare professionisti per le imprese moderne producono un 30% di laureati senza lavoro, sebbene si registri una incapacità anche dall’altro versante, con aziende perlopiù piccole e inabili ad accogliere le competenze dei nuovi dottori; appurata l’incongruenza tra domanda e offerta, è fin troppo chiaro il dato sull’emigrazione interna che attesta oltre un milione di spostamenti tra Meridione e Settentrione, sebbene parte di questi siano destinati a rientrare. La disoccupazione giovanile altissima in tutto il Paese trova terreno fertile al Sud, strutturalmente inadeguato verso i nuovi assunti e le donne, ma rintraccia anche una percentuale terrificante la statistica relativa ai NEET (Not in education, in employment or training), acronimo di origine anglosassone che rimanda ai giovani che non studiano, non hanno lavoro (compresi apprendistato, tirocini et simili) né lo cercano. Allontanandoci dall’analisi globale, il rapporto fornisce anche schede regionali dove la Campania offre numeri impietosi: meno del 40% della popolazione risulta impiegata (record assoluto), maggior numero di posti lavoro persi (16.700 unità), record di NEET al 38,8%, PIL pro-capite più basso con 16.448 euro. Infine a pesare è l’occupazione femminile, col rapporto SVIMEZ che apertamente parla di segregazione occupazionale: nel Meridione due donne su tre non lavorano, la presenza femminile è cresciuta in quindici anni dell’11% al Nord e soltanto del 4% al Sud (fino al 2004, per poi stagnare). Una situazione dettata da prestazioni mal retribuite, significativo come giù il part-time sia scelta obbligata e al Settentrione sia involontaria, ma anche, si sottolinea, da una vecchia concezione che vuole famiglie mono-reddito con stipendio maschile e gestione della casa femminile. Pur volendo guardare con ottimismo al futuro, e nel rapporto si indicano delle linee guida su tematiche ritenute fondamentali per lo sviluppo (industria, struttura del lavoro, sfruttamento delle risorse), si attesta un divario recuperabile, stime alla mano, in 400 anni. Si rileva come le manovre dell’attuale e del precedente governo abbiano avuto effetto maggiore nel Mezzogiorno, e di come in generale la crisi sia sempre più crisi al Sud a fronte poi di un recupero scarso. Numeri insostenibili per una questione meridionale che rimane aperta oggi più che mai.