Presidenziali U.S.A: il progetto Obama e l’animo conservatore

Amedeo Tesauro

Meno di due mesi all’ora X. Si terranno infatti il 6 novembre le elezioni presidenziali statunitensi, a fronteggiarsi il presidente democratico uscente Barack Obama e il repubblicano Mitt Romney nella corsa alla poltrona più importante del mondo. Nel giro di una settimana i due partiti di riferimento del sistema politico statunitense hanno sparato le loro cartucce con le rispettive convention, eventi politici ma soprattutto mediatici. Scalpore ha suscitato la performance di Clint Eastwood al raduno repubblicano di Tampa, dodici minuti più contro Obama che pro-Romney in un surreale dialogo con una sedia vuota a simboleggiare l’incapacità del presidente in carica, un’esibizione controversa esaltata da alcuni che vedono in Eastwood il rappresentante di un malcontento sincero di parte del paese, demolita da altri secondo cui il bizzarro spettacolo ha distolto l’attenzione dal candidato nella sera che avrebbe dovuto portalo al sorpasso nei sondaggi nel tradizionale balzo post-convention. Niente sorpasso, la popolarità di Romney rimane al pari di Obama e i “grandi elettori”, i cittadini eleggono queste figure che poi concretamente votano il candidato a cui sono associati in una forma di democrazia solo ufficialmente indiretta, pendono ancora per l’attuale inquilino della Casa Bianca, una parità di cui è impossibile lamentarsi se rapportata ai risultati di inizio anno: Romney ha scalato i sondaggi colpendo lì dove Obama ha esitato, con una ricetta vecchio stampo per l’America vecchio stampo che alla fine mostra sempre di voler tornare al Grand Old Party. Ma qual è la ricetta di Romney? Cosa propone il suo programma per risolvere la più grossa crisi del capitalismo dell’ultimo mezzo secolo (inevitabilmente il nodo focale della campagna)? Tante parole per il momento, una vaghezza di contenuti che ha indispettito persino fasce consistenti del proprio elettorato a cui non basta la prospettiva minacciosa di un paese a pezzi come l’Europa in caso di vittoria democratica, ma richiede indicazioni latenti; a Tampa, nella Florida in bilico che da sola vale tanti “grandi elettori” da garantire una riconferma a Obama, Romney non è sceso nel dettaglio e ha ignorato la politica estera. D’altro canto Obama non ha nascosto le imperfezioni in politica economica definendola incompleta, giocando d’anticipo ma ammettendo implicitamente come la crisi economica abbia spezzato la speranza di cambiamento presentata quattro anni fa. Non a caso nella convention di Charlotte nel Nord Carolina, ha chiesto un nuovo mandato per percorrere una via difficile ma che porterà a un futuro migliore, bollando la proposta repubblicana come ideale per un programma del secolo scorso. Al di là delle promesse ha ragione quando parla di sfida generazionale, quando inquadra la lotta presidenziale come competizione tra due differenti idee del futuro: la proposta Romney è il rigurgito conservatore che torna sempre, forte e solido, talmente forte da aver l’ultima volta portato al governo un Bush jr. passato alla storia come presidente di rara incompetenza; Obama invece chiede una nuova chance per concretizzare le sue promesse di cambiamento, se riuscirà a convincere gli americani della bontà delle sue scelte, convincerli che le facili soluzioni offerte dall’avversario siano illusorie, riuscirà a guadagnare una riconferma che si gioca sulla fiducia accordata a un progetto forse irrealizzabile negli Stati Uniti delle vecchie dinamiche.