Passeggiate e pensieri agostani

 Aurelio Di Matteo

Oggi ho avuto un altro piacevole colloquio con il solito cortese interlocutore che da qualche tempo, facendo le pulci ai miei soliloqui esternati in forma scritta su qualche compiacente quotidiano, m’intrattiene sui problemi amministrativi del territorio a Sud di Salerno. Questa volta, però, l’argomento ha riguardato un tema che, di solito e con qualche punta di spregio, diciamo appartenga alla categoria dei “massimi sistemi”. Eravamo all’interno degli Scavi di quella bellissima e importante città che i Greci chiamarono Poseidonia, i Lucani Paistos e i Romani Paestum. Dalla considerazione che almeno un’esigua parte fosse data al godimento del pubblico, mentre il resto è consegnato agli usi più vari – botteghe di chincaglierie e di souvenir prodotti in Cina, gelaterie e vinerie, bar e pizzerie, parcheggi privati a pagamento e coltivazioni di mais, allevamento di bufale e relativo caseificio, ristoranti con estensioni costruite in PVC e private abitazioni con finestre in alluminio anodizzato, Teatro in tubolari per volgare umorismo ed esibizione canora del solito cantante per facili e ingenti incassi estivi per qualche privilegiato imprenditore – siamo scivolati su argomenti di generale teoresi politica. Mentre cercavamo, da profani archeologi, l’esatta ubicazione dell’agorà di Poseidonia, con un salto temporale di secoli e spaziale di qualche ora di aereo, ci siamo chiesti quale fosse la sua struttura edilizia e quale la funzione che essa svolse nell’antica Atene. A tal proposito ci siamo ricordati di Pisistrato! In verità, quando si parla di agorà, storicamente si dovrebbe far riferimento ad Atene e non propriamente alle altre città-stato; meno che mai a Roma, soprattutto a quella dei Cesari e degli Imperatori. All’inizio, come per Atene, anche a Roma la piazza s’identificò con il mercato, trasformandosi ben presto in centro politico. In molte città greche conquistate dai Romani non c’è traccia dell’agorà perché sostituita dal foro; ad Atene, invece, il foro fu costruito a poca distanza dall’agorà, lasciata con rispettosa sacralità nella sua integrità edilizia. A questo punto il discorso, per noi due improvvisati storici, non poteva non deviare su tematiche più congeniali e d’uso, al concetto stesso di democrazia, sollecitati anche dal fatto che da qualche giorno si erano concluse proprio qui a Capaccio le giornate di studio, di approfondimento e di discussione del “laboratorio democratico”. Come prevedibile la discussione con l’amabile mio interlocutore si è fatta accesa per la nostra consueta e ormai scontata diversità di vedute. Su alcune conclusioni, però, abbiamo finito per concordare, se non altro per stabilire quale fosse la pratica della democrazia o quale democrazia fosse praticata di fatto. Dopo una disamina ampia e con riferimento a ciò che ci mostra l’esperienza concreta, pur sempre unitamente all’osservazione matrice di ogni conoscenza scientifica, alla fine abbiamo concordato che vi erano due tipologie di democrazia: quella dell’agorà e quella del branco. La prima, che deriva dalla vita politica ateniese, si basa sul principio della partecipazione e dell’ascolto, del governo sottoposto al controllo dei cittadini e del potere che fluisce dal basso. Splendidamente il politologo prof. Dahl definisce con “ricettività” la caratteristica fondamentale di un sistema politico democratico. La democrazia dell’agorà costruiva il potere e il governo nel rapporto concreto che si svolgeva nella “piazza”. Oggi tale tipologia non si trova da nessuna parte; forse soltanto nella cosiddetta democrazia della rete. La differenza sta nel fatto che questa si è delocalizzata; è a-spaziale e a-temporale. Con il progredire della tecnologia e il diffondersi del suo uso, forse si potrà ripristinare l’antica agorà di Atene, poiché il rapporto dialogico coinvolge tutti i membri di una Comunità. Come dice Habermas la sfera pubblica diventa lo spazio dell’uso pubblico della ragione e il luogo comunicativo del convincere o dell’essere convinti, per maturare collettivamente atti di governo. Con il passare dei secoli, però, con riferimento sia all’agorà di Atene sia al successivo Forum, con l’amico occasionalmente esemplificato nella romana Paestum, concretamente di quella metodologia e pratica fuor che il lemma si è perduto anche il ricordo. Nella pratica per essa si contrabbanda la “democrazia del gruppo”, meglio espressa con la relazionalità del branco. La sua metodologia è quella del maggioritario predeterminato, del potere a flusso discendente, delle idee chiare, evidenti e non criticabili, insomma dell’intolleranza verso la diversità della proposta. Il criterio guida, in fondo, s’ispira a quello di una Comunità composta di tre membri, di cui due lupi e uno agnello, riuniti in Consiglio per decidere cosa mangiare a pranzo. Mentre così concordavamo, siamo giunti all’uscita degli Scavi, dove insiste un orrido edificio, costruito proprio dalla Sovrintendenza preposta alla tutela di quel patrimonio dell’umanità, più orrido dei tanti, baracche arrugginite comprese, che costellano la strada tracciata dai Borboni. E di fronte a tanti scempi il mio interlocutore mi afferra per un braccio e mi scuote sussurrandomi, nel timore che qualcuno lo possa sentire: no amico caro, oltre a quelle due tipologie di democrazia ce n’è un’altra e da qualche tempo imperante, è la democrazia dell’ignoranza.