Scommettere o non scommettere su Dio?

Fulvio Sguerso

(Veluti si Deus daretur)- Non era ancora comparso in libreria che  già il nuovo libro del cardinale Joseph Ratzinger (nel frattempo diventato papa Benedetto XVI): L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli, Siena, 2005, era  diventato pretesto di rinnovata polemica tra laici e cattolici, o meglio tra “laicisti” e “clericali”, nel clima inquieto del  dopo referendum sulla “procreazione assistita” e  di una – tanto per cambiare – anticipata campagna elettorale. Il  Corriere della Sera del 16/06/05 aveva  pubblicato il passo in cui il cardinale Ratzinger, richiamandosi a Pascal, propone ai non credenti di “capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse”. Ecco, è proprio su questo “come se” e sulla inesauribile attualità della scommessa a cui è collegato, che vorrei proporre ai lettori di Dentro Salerno, laici o non laici,. alcune riflessioni. Come si ricorderà, Pascal intende mettere di fronte alle proprie responsabilità il non credente, lo scettico libertino che pensa di poter vivere come se Dio non ci fosse. Dal momento che la nostra ragione, da sola, non può farci decidere per l’esistenza o la non esistenza di Dio e che le famose “prove” (o meglio, argomenti), per chi non ha già la fede, non provano nulla, non rimane che l’argomento del gioco, dell’azzardo, appunto della scommessa. Ma,  in questa scommessa,  non c’è proporzione tra ciò che si rischia di perdere e ciò che si potrebbe  guadagnare e, dato che le probabilità di vincere sono pari a quelle di perdere, sarebbe follia rischiare di perdere l’infinito scegliendo il finito (destinato a perdersi nel nulla); quindi, in ogni caso, conviene puntare sull’esistenza di Dio: “E  perciò  la nostra proposizione ha una forza immensa, quando vi sia il finito da rischiare, in un gioco ove si abbiano uguali probabilità di guadagno e di perdita, e l’infinito da guadagnare”.  Dunque a rischiare il finito per l’infinito c’è la massima convenienza. Che cosa si può obiettare a questa conclusione? Nulla, salvo che, anche riconoscendo l’esattezza del ragionamento, si può essere fatti in modo tale da non riuscire a credere, e non si può obbligare nessuno a credere, nemmeno con la forza di un perfetto sillogismo. Ed è proprio questa l’obiezione dello scettico interlocuto: “Sì, ma ho le mani legate e la bocca muta, mi si obbliga a scommettere e non sono libero, non mi si lascia andare e sono fatto in modo tale che non posso credere. Cosa volete dunque che faccia?”.  Non è una obiezione di poco conto, proprio perché  non è razionale ma fattuale ed esistenziale. A questo punto non rimane che l’argomento del “come se”: “ Poiché la ragione vi porta a questo e tuttavia  non lo potete, adoperatevi dunque non a convincervi con l’aumento delle prove di Dio ma con la diminuzione delle vostre passioni. Volete andare alla fede e non ne conoscete la strada. Volete guarirvi dall’infedeltà e ne chiedete i rimedi, imparate da quelli che sono stati legati come voi e che  scommettono ora tutto il loro bene”. Non è quindi sul piano della logica che si può guarire dallo scetticismo e dal libertinismo ma sul piano dell’agire: si tratta di comportarsi come le persone che credono veramente. Lo scettico libertino teme di istupidirsi?  “E perché mai? – continua Pascal – cosa avete da perdere? Ora, che male vi accadrà prendendo questo partito? In verità non vi ritroverete più nei piaceri pestiferi (empestés), nella gloria, nelle delizie…Ad ogni passo che farete per questa strada, vedrete tanta certezza di guadagno e tanta nullità in ciò che rischiate, che conoscerete alla fine come abbiate scommesso per una cosa certa, infinita, per la quale non avete dato niente”. Sarebbe dunque follia non vivere in tutto e per tutto veluti si Deus daretur. Tuttavia non mancano le controargomentazioni; per esempio, il pragmatista William. James obietta che per accettare la conclusione di Pascal bisogna già credere che l’esistenza di Dio sia una posta infinita; quindi è la fede che rende valida la scommessa e non viceversa. Antonio Gramsci, pur riconoscendo finezza all’argomento, osserva che questa finzione del “come se” conduce a una visione bassamente utilitaristica della religione: “Questo modo di pensare sente alquanto di volterrianismo e ricorda il modo di esprimersi di Heine: ‘Chissà che il padre eterno non ci prepari una qualche bella sorpresa dopo la morte’ o qualcosa di simile!”. Qui sembra  che il giansenista Pascal sia quasi incline alla pedagogia e alla pratica degli invisi gesuiti!. Più recentemente, Hans Jonas rifiuta questo calcolo d’azzardo, che rischia il tutto per tutto “ perché in rapporto con il nulla, che viene qui accolto fra i rischi, ogni alcunché e dunque anche quello della fuggitiva esistenza temporale rappresenta una grandezza infinita, per cui anche la seconda alternativa (il puntare sull’eternità possibile sacrificando la temporalità data) racchiude in sé la possibilità di una perdita infinita”. Neanche per Jonas la filosofia del “come se” è dunque accettabile, infatti: “Solo se sussiste qualcosa di più che un’astratta possibilità, solo se depone a suo favore la fede in un’eternità che ci attende, l’opzione per essa cesserà di essere una pura e semplice scommessa”.  Per il marxista Lucien Goldmann, invece:”l’idea che l’uomo è’imbarcato’ e che deve scommettere costituirà dopo Pascal l’idea centrale di ogni concezione filosofica cosciente del fatto che l’uomo non è una monade isolata e autosufficiente, ma un elemento parziale all’interno di una totalità che lo supera e alla quale è legato dalle sue aspirazioni, dalla sua azione e dalla sua fede….”. Quindi non possiamo sottrarci: siamo in gioco e dobbiamo scommettere. Altrimenti? Chi non scommette ha già perso;  perché l’uomo, abbandonato a se stesso, privato di ogni distrazione, di ogni  “divertissement”, solo con i propri fantasmi, fosse pure un re, cadrebbe ben presto nella disperazione o nella follia. Diversa ancora, ma simile alla concezione “tragica” pascaliana di cui potrebbe considerarsi una variante aggiornata, è la scelta di chi, come il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, crede etsi Deus non daretur…                  

                                                                                                    

3 pensieri su “Scommettere o non scommettere su Dio?

  1. Con gli scandali che ci sono, tra falchi e colembe è spuntato un corvo. La chiesa come istituzione non è credibile. Cosa scriverebbe Pascal oggi? Filosofo di grande spicco, a lei la risposta, pregievole dottor Sguerso.

  2. Gentile Raffaella, non è che la Chiesa ai tempi di Pascal fosse messa molto meglio della Chiesa di Benedetto XVI; pensi che papa Alessandro VII condannò le “Lettere provinciali” ( poi bruciate per ordine di Luigi XIV) perché difendevano il giansenista Arnauld e mettevano in ridicolo la “casuistica” dei gesuiti. Che cosa ne scriverebbe oggi? Quello che ne scriveva allora: “Poiché i due principali interessi della Chiesa sono la conservazione della pietà dei fedeli e la conversione degli eretici, siamo pieni di dolore nel vedere le fazioni che si fanno oggi per introdurre gli errori più atti a chiudere per sempre agli eretici l’ingresso alla nostra comunione, e a corrompere mortalmente quel che ci rimane di persone pie e cattoliche. Questa impresa che si compie oggi apertamente contro la verità della religione e quelle più importanti per la salvezza, non ci riempie soltanto di dispiacere, ma anche di terrore e di timore, poiché oltre al sentimento che ogni cristiano deve avere circa questi disordini, abbiamo in più l’obbligo di porvi rimedio…” (Pensieri, 991). Sintomatico quel “corrompere mortalmente quel che ci rimane di persone pie e cattoliche” a causa delle lotte per il potere sulle coscienze (e non solo, si pensi alle manovre interne allo Ior!)che già allora infuriavano tra le diverse “anime” della Chiesa. La quale, come ho ricordato altrove, non si identifica solo nel clero, tantomeno nel collegio cardinalizio, ma, semmai, nell’assemblea (ekklesia) o popolo in cammino dei credenti in Gesù Cristo.
    Le cui cinque piaghe, come scriveva l’abate Rosmini, continuano a sanguinare soprattutto per colpa di un alto clero più interessato ai beni e agli onori mondani che alla vita spirituale e alla missione salvifica di Santa Madre Chiesa. Altro che “corvi rossi”!
    Un riconoscente saluto da
    Fulvio Sguerso

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