La primavera del cinema civile e delle polemiche meschine

Fulvio Sguerso

Ci sono tanti modi di reagire a un’opera d’arte che ci obbliga a pensare, cioè a rimettere in discussione opinioni, giudizi e pregiudizi acquisiti non solo da un punto di vista estetico (che è, o dovrebbe essere, a rigore, il punto di vista proprio e prevalente in un discorso su un’opera d’arte), non solo quindi sugli aspetti formali e stilistici inerenti all’oggetto artistico considerato,  ma ancora per quanto attiene alle sue implicazioni morali e, persino, politiche. Ci sono tanti modi, inoltre, di reagire alle intenzioni o, se si preferisce, alle tesi più o meno condivise o discutibili che l’autore affida alla sua opera, e, tramite questa, all’intelligenza del lettore o, come nel caso in questione, dello spettatore. Mi riferisco alle polemiche suscitate dal film di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage, che racconta della bomba di Piazza Fontana e dei tentativi golpisti e della strategia della tensione messa in atto dalla destra eversiva con la complicità di apparati statali deviati, sostenuti da una parte dei servizi segreti italiani agli ordini di quelli statunitensi, che paventavano una presa del potere per via democratica da parte del partito comunista. Questo il tema storico del film. Ma, se il regista si fosse limitato a coordinare “fatti anche lontani” e a mettere “insieme pezzi disordinati e frammentari di un intero coerente  quadro politico”, come scriveva Pier Paolo Pasolini nel famoso articolo del 1974 sul Corriere della Sera, intitolato, appunto, Romanzo delle stragi, avrebbe fatto un documentario come quelli, peraltro meritori, del ciclo televisivo sulla “Notte della Repubblica” curato da Sergio Zavoli, quindi un’opera da storico o un film-inchiesta come tanti, non un’opera d’arte. L’intento del regista è invece quello di rappresentare, entro la tragedia collettiva di una guerra civile terroristica, quella personale dei quattro protagonisti (cinque se consideriamo anche il destino di Aldo Moro)  coinvolti: Pinelli, Calabresi e le rispettive mogli; non per niente nel film c’è un richiamo esplicito all’Anna Bolena di Donizetti, a significare la tragicità dei destini delle vittime di quella strage, che ha aperto una ferita ancora sanguinante (come quelle che seguiranno) nella storia del nostro dopoguerra che sembra non voler mai finire. “Dentro quella voragine apertasi alle 16.37 del 12 dicembre 1969 nel cuore della democrazia – scrive Cesare Fiumi su “Sette” del 15 marzo – e del salone della Banca dell’Agricoltura di Milano finiranno, come in un maelestrom, le vite di 17 persone, e poi quella di Pino Pinelli, e quella di Luigi Calabresi, e – per quindici anni almeno – di decine di altre vittime innocenti, cittadini qualunque, politici, magistrati, poliziotti, carabinieri. Tutte vittime  di estremismi (e terrorismi), duri e puri solo a parole; infiltrati fino al midollo da servizi di ogni ordine, grado e bandiera. Tutte vittime di quella bomba, forse di quella “doppia” bomba: una dimostrativa, che doveva scoppiare a banca chiusa (di matrice anarchica o sull’anarchia fatta ricadere), e l’altra, potentissima (messa dall’eversione nera con la complicità dei Servizi deviati), che doveva fare esattamente quello che fece. Che è poi la tesi sulla quale aveva lavorato il commissario Calabresi, poco prima d’essere assassinato…”. Questa la trama per niente romanzesca del film, malgrado il titolo (chiaro il riferimento al “romanzo” pasoliniano). Ma la bellezza del film – oltre che in quegli “interni” sontuosi o umili o sordidi o tetri a seconda dei luoghi e degli ambienti istituzionali o clandestini o umili o piccolo-borghesi, e a quegli “esterni” metropolitani o provinciali in cui si muovono i singoli e le masse in quel clima fosco da pre-guerra civile – consiste soprattutto nel come gli attori hanno saputo interpretare il dramma e i conflitti esterni ma soprattutto interni dei  diversi personaggi di questa tragedia italiana (ho trovato addirittura “trascendentale” l’Aldo Moro di Fabrizio Gifuni). Ebbene, incurante o insensibile alla prova davvero mirabile di questi interpreti, come quella di tutti, ma proprio tutti i comprimari (bravissimi i funzionari della questura e i poliziotti, e i “compagni” e i “camerati” e i magistrati e gli ufficiali), Mario Calabresi, dopo aver osservato trattarsi di “un’opera sulla linea del presidente Napolitano, che si è impegnato a restituire umanità alle persone, liberandole dalla condizione di simboli”, si è lamentato perché, secondo lui,  a suo padre non sarebbe stata restituita abbastanza umanità e ne sia invece stata restituita troppa ai suoi nemici, censurando la campagna infame e assassina di Lotta Continua. Dal canto suo, Adriano Sofri ha pubblicato un instant-book direttamente sul web per demolire la “fonte” della sceneggiatura del film, cioè Il segreto di Piazza Fontana di Paolo Cucchiarelli. Si intitola 43 anni ed è promosso sul Foglio di Giuliano Ferrara così: “Parla da solo delle fragili basi del nuovo fracasso mediatico su Piazza Fontana, non ha bisogno di commenti”. La tesi della doppia bomba, una solo dimostrativa messa da Valpreda (o da un suo sosia) e l’altra invece messa perché provocasse la strage dalla manovalanza neofascista dei Servizi deviati, non è suffragata da prove certe, questo è vero, ma Sofri parla solo di questo e non del film, che non è una fotocopia del lbro di Cucchiarelli, ma un’opera autonoma, e come tale andrebbe giudicata. Giuliano Ferrara, invece, non commenta il film ma parla di Mata Hari, del tempo di suo padre e di sua madre, e della perceziono che essi avevano del loro passato, e poi di Marcel Proust e di Strawinsky e di Picasso e dell’architettura razionalista di Gropius e di Le Corbusier e, pensando ai 43 anni che lo separano da quella strage dichiara: “Sopra tutto sono sconvolto e a questo punto anche ossessionato dalla nostra percezione del tempo, di un analogo segmento temporale che sta alle mie e nostre spalle, ma che ritorna sempre nella stessa forma, sempre con gli stessi stilemi, sempre con le stesse emozioni autentiche o simulate, sempre con gli stessi automatismi o tic, una – scusate – rottura di coglioni”. Beh, questo, a casa mia, si chiama menare il can per l’aia. Ma perché Ferrara mena il can per l’aia invece di parlare del film di Marco Tullio Giordana? Lo spiega poco sotto: perché preferisce parlare della strage degli innocenti non nati e delle bambine asiatiche, del muro nero dell’ingegneria genetica, del possibile strike israeliano a difesa di un popolo tornato dopo millenni alla sua terra…Come se non si potesse parlare della strage del 12 dicembre 1969 e anche di tutte le questioni ricordate da Ferrara, quasi fossero di sua competenza esclusiva! Ma l’argomento decisivo  contro il Romanzo di una strage Ferrara lo spara alla fine del suo articolo: “Che palle la strage di stato”. Convincente, non vi pare?