Ci si puo’ curare con la filosofia?

Fulvio Sguerso

Questa è una tipica domanda aperta, talmente aperta che è impossibile rispondere in modo sensato se non si specifica anzitutto il significato di “cura” e, naturalmente, quello di filosofia. Oltre che aperta è anche una domada molto attuale (e al contempo antichissima), perché sta affermandosi anche da noi, dopo il suo esordio in Germania  nel 1981, la cosiddetta “consulenza filosofica”, in alternativa alle diverse forme di psicoterapia. Per capire di che cosa si tratta la via migliore è riportare la definizione di chi l’ha ideata, cioè il filosofo Gerd B. Achenbach: “Essa è un’istituzione per le persone afflitte da preoccupazioni o da problemi, per persone che ‘non se la cavano nella vita’ o che pensano di essere in qualche modo rimaste ‘impigliate’; persone che sono assillate da domande a cui non riescono a rispondere e di cui non riescono a liberarsi; persone che, sì, si affermano nella loro quotidianità, ma che allo stesso tempo non si sentono sufficientemente chiamate in causa, perché hanno l’impressione che la loro vita effettiva non corrisponda alle loro possibilità .”Persone, quindi, che avvertono la propria esistenza come inautentica, che soffrono per la mancanza di qualcosa senza magari sapere esattamente di che cosa, e comunque vorrebbero capire che cos’è che non va nel loro modo di vivere, cioè nel loro modo di rapportarsi con se stessi, con gli altri e con il mondo. In base a questa definizione, chi non è afflitto da preoccupazioni o problemi di sorta, chi se la cava sempre e comunque nella vita e  non ritiene di doversi liberare da qualcosa (o da qualcuno), chi non è assillato da domande a cui non trova risposta, chi si sente “realizzato” e sempre al posto giusto nel momento giusto  riconoscendosi in quello che dice e che fa (e in quello che gli altri dicono di lui), senza avvertire nessuna distanza tra quello che è (o che appare) e quello che desidera essere (o che vorrebbe che gli altri dicessero di lui), in tal caso costui non ha nessun bisogno non solo di consulenza filosofica ma neanche di filosofia, perché sarebbe simile a quegli dei senza turbamenti e senza vani desideri immaginati da Epicuro nella sua Lettera sulla felicità: “A seconda di come si pensa che siano gli dei, possono venire da loro le più grandi sofferenze come i beni più splendidi. Ma noi sappiamo che essi sono perfettamente felici, riconoscono i loro simili, e chi non è tale lo considerano estraneo.” Gli dei vivono la loro vita beata in un mondo sopra il mondo, e non hanno bisogno di nessuna cura per stare meglio di come già stanno; ma gli esseri umani non vivono nell’iperuranio, in un mondo fuori dal mondo, e nemmeno nella mitica età dell’oro, fuori dal tempo e dalla storia, in un’età in cui non c’era differenza tra il volere e il potere e tutto era “a portata di mano”; tant’è vero che hanno sempre sognato, e ancora sognano,  o di tornare a quel mondo prima del mondo, o di raggiungere, prima o poi, un nuovo paradiso (se terrestre o celeste è una questione di fede).  Ora, il fatto che gli uomini sognino sempre un “altrove” significa che non si trovano bene nel luogo in cui stanno. E perché mai? Che cosa c’è che non va nel luogo in cui ci troviamo? Quale che sia questo luogo, è lì che incontriamo i nostri limiti “ontologici” di spazio, di tempo, di codice genetico, ma anche le occasioni che la vita ci offre, o meglio la possibilità che abbiamo di scegliere, entro  quei limiti, come e perché vivere. Qui ognuno ha qualcosa di proprio da dire, ma tutti siamo immersi  nella stessa temperie, viviamo nell’età della tecnica, della globalizzazione e del dominio fattuale dei valori  finanziari su ogni altro valore. E non sarà per caso che si moltiplicano e prosperano le “terapie” di ogni genere, terapie che sono a loro volta sintomo di una malattia (o mania) della società prima ancora che degli individui; e se malata è la società, come potranno guarire i soggetti che la compongono? Ma poi, da che cosa dovremmo guarire? Possiamo forse guarire dai rischi, dai pericoli e dall’esperienza del dolore,  da cui la nostra vita è comunque  vulnerabile per il fatto stesso di non essere immortale? Chi dice nascita dice anche morte, dal momento che, per morire, è necessario essere nati; la morte è connaturata alla vita, come pure il dolore; quindi non si può guarire dal dolore e dalla morte, proprio perché non si può guarire dalla vita (se non morendo). Ma allora  da che cosa è possibile guarire, oltre che, ovviamente, dalle malattie “somatiche”? Ancora Epicuro insegna che non dalla morte si può guarire ma dalla paura della morte, e infatti concepiva la filosofia come la medicina (il “farmaco”) che avrebbe potuto guarire così dalla paura della morte come da quella degli dei (o meglio dalle false credenze intorno agli dei). Prima di lui, anche Socrate ha insegnato a non temere la morte: “E dovete sperare anche voi, o giudici, dinanzi alla morte e credere fermamente che a colui  che è buono non può accadere nulla di male, né da vivo né da morto, e che gli dei si prenderanno cura della sua sorte.” (Platone, Apologia). Oggi la malattia di cui soffre la nostra società, e quindi l’individuo, si chiama “mancanza di senso”. Chi, in Italia, ha più insistito su questa diagnosi è il filosofo Umberto Galimberti, il quale, in apertura del suo testo La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica (Milano, 2005), scrive: “Nella casa di psiche ha preso dimora un ospite inquietante che chiede, con una radicalità finora sconosciuta, il ‘senso dell’esistenza’. Gli altri ospiti, che già abitavano la casa, obiettano che la domanda è vecchia quanto il mondo, perché, dal giorno in cui sono nati, gli uomini hanno conosciuto il dolore, la miseria, la malattia, il disgusto, l’infelicità e persino il ‘disagio della civiltà’ a cui prima le pratiche religiose, e poi quelle terapeutiche, con la psicoanalisi in prima fila, hanno tentato di porre  rimedio.” Questa domanda di senso è una domanda essenzialmente filosofica, dal momento che non riguarda solo questa o quella circostanza, questa o quella esperienza, quella determinata delusione  o quello specifico dolore, ma il senso stesso dell’esistenza. Ma non basta: “L’ospite inquietante però insiste nel dire che nell’età della tecnica la domanda di senso è radicalmente diversa, perché non è più provocata  dal prevalere del dolore sulle gioie della vita, ma dal fatto che la tecnica rimuove ogni senso che non si risolva nella pura funzionalità ed efficienza dei suoi apparati.” Questo non significa, evidentemente, che gli uomini e le donne di oggi non tendano più a rifuggire dal dolore e a desiderare il piacere, anzi, la tecnica stessa promette – e in parte mantiene, si pensi solo all’enorme consumo di analgesici – l’”aponia”, cioè l’assenza di dolore fisico, ma che all’enorme e crescente potenza degli apparati tecnici non corrisponde un’altrettanta chiarezza sulle sue finalità: conosciamo  la causa efficiente, quella materiale (e, se siamo ingegneri, quella formale) ma non quella finale. E infati: “All’interno di questi apparati, l’individuo soffre per l’insensatezza del suo lavoro, per il suo sentirsi soltanto un mezzo nell’universo dei mezzi, senza che all’orizzonte appaia una finalità prossima o una finalità ultima in grado di conferire senso. Sembra infatti che la tecnica non abbia altro scopo se non il proprio autopotenziamento, per cui se nell’età pre-tecnologica la vita e il mondo apparivano privi di senso perché miserevoli, nell’età della tecnica la vita e il mondo appaiono miserevoli perché privi di senso.” Ora, di fronte all’insensatezza (e anche alla pericolosità, si pensi agli armamenti atomici e alle centrali nucleari) degli apparati tecnici, le psicoterapie, a cominciare dalla psicoanalisi, sono del tutto impotenti. Quindi, proprio lì dove vengono meno le psicoterapie, cioè di fronte alla sofferenza per la mancanza di senso, può entrare in gioco la pratica filosofica, in quanto la filosofia “fin dal suo sorgere si è applicata alla ricerca di senso. “ Fin dal suo sorgere, infatti, ha cercato di “darsi una ragione” del nascere e del morire, dell’essere e del non essere, del piacere e del dolore, del caso e della necessità, del bene e del male;  ed è quello che, pur nella diversità dei tempi e dei contesti, continua ancora oggi a fare. “Ma dall’insensatezza non si esce con una “cura”, perché il disagio non origina dall’individuo, ma dal suo essere inserito in uno scenario, quello tecnico, di cui gli sfugge la comprensione…” Così come gli sfugge la comprensione, direbbe Hillman, “del dèmone invisibile che determina le nostre motivazioni e le nostre scelte.” In ogno caso, quello che sfugge sono idee, e il potere che queste idee sotterranee (o iperuranie) esercitano nella nostra vita quotidiana…

6 pensieri su “Ci si puo’ curare con la filosofia?

  1. Gentile Dr Giulio Sguerso, mi azzardo a fare un modesto commento a modo mio al Suo ottimo articolo di natura filosofica . Vorrei dire, o lo credo sul serio che in questo mondo
    siano in tanti quelli che , per mille ragioni, smarriscono la propria via per lottare in questo mondo e, per una serie di fattori negativi, soccombono in un mare di follia. Dico questo perché immagino che, talvolta, la follia non è affatto negata alla filosofia. Tanto è vero che alcune persone , seppure appesantite di reali problemi che la stessa vita ne offre a iosa , anziché fallire nella squallidezza dell’umiliazione e della disfatta, si tuffa con la mente nelle più svariate accomodazioni filosofiche pur di non essere sconfitti a morte da tali irriducibili problemi, sempre assillanti e irrefrenabili .
    Cordialità, Alfredo

  2. Lei ha toccato un tema nevralgico della vita psichica e della cultura in generale, gentile signor Alfredo, cioè quello degli incerti confini tra “normalità” e “follia”. Chi stabilisce i confini esatti tra sanità e malattia mentale? Le sembra sana, tanto per esemplificare, una società che spende somme enormi per gli armamenti e per i cosmetici, ma che non sa o non vuole garantire una vita dignitosa a tutte le persone (vedi il numero crescente degli emarginati e di chi “smarrisce la propria via”)? E’ sana una società il cui 10% possiede il 45,9% della ricchezza nazionale, come in Italia? Le sembra sano un sistema economico in cui c’è chi percepisce emolumenti favolosi e chi, invece, con il proprio salario, non riesce a combinare il pranzo con la cena? E se la società è insensata, come potranno essere sensati gli individui che la compongono? E tuttavia non c’è solo la follia intesa come il contrario della ragione, c’è anche una follia che non è deviazione da una norma (lità), perché è precedente alle norme e alla logica: è quell’indistinto originario da cui è emersa l’umana coscienza e il suo linguaggio, è il caos primordiale da cui si è formato il cosmo ben ordinato (o quasi) in cui abitiamo. E’ la follia sacra da cui nascono le parole della poesia e le raffigurazioni dell’arte (nonché le ineffabili visioni dei mistici).
    Un cordiale saluto.
    Fulvio

  3. la ricerca del “Senso” sembra e credo di poter affermare che è nata con l’umanità stessa, è una richiesta lecita che si pone chiunque si trovi a percorrere l’esistenza nella consapevolezza di esistere. Non è forse strano che dopo migliaia di anni sia sempre la stessa domanda quella che l’uomo si pone? Possibile che a parte pochissimi illuminati la maggioranza degli esseri che hanno popolato e popolano questo pianeta si domandino sempre la stessa cosa senza trovare una risposta, che deve esistere poichè esiste la domanda. Forse stiamo cercando nel posto sbagliato, forse cerchiamo la risposta fuori di noi mentre essa è dentro di noi e se il mondo davero non fosse che la patetica rappresentazione di ciò che noi proiettiamo all’esterno e l’unica vera Realtà, quella che poi da senso a tutto il resto fosse all’interno della mente che ha creato ciò a cui guarda? Abbiamo paura della morte ed il senso della morte permea in un modo o nell’altro tutta la vita ma, in realtà la morte esiste davvero è Reale? Se guardiamo al corpo essa esiste ma se non siamo solo un corpo, ma molto più di questo allora la morte esisterebbe ancora? La filosofia ha delle risposte così come le hanno la psicologia, la religione e perchè no il libero pensiero di chi ricerca la Verità di fondo della propria esistenza, tutto questo commento per porre una domanda da una diversa prospettiva: “E’ la realtà che determina la mancanza di senso percepita dall’individuo o è l’individuo che col proprio pensare determina l’insensatezza della Realtà?” Pongo la domanda anche a te, poichè io ho già trovato la mia risposta:)
    Con affetto e stima
    Andrea

  4. Giustamente, dr. Andrea Anche a Lei chiedo venia per la mia totale ignoranza in merito. Tuttavia credo anch’io che quelle facoltà sensitive che si appoggiano su certi fattori filosofici siano sorti allorquando l’uomo era ancora primitivo .Non per questo l’umanità ne abbia tratto decisivi vantaggi, visto che ancora oggi , che anneghiamo in un mare di sapienza, non riusciamo ancora a capire esattamente le strategie della mente umana che , talvolta s’inalbera o, nel contempo sprofonda negli abissi marini.
    L’umanità ha lasciato , e lascerà sempre, la propria impronta di sapienza o presunta tale , sulla vera natura dell’uomo e dei suoi valori dei sensi Ma direi che il senso che appartiene ad ogni singola esistenza umana sia talmente singolare che anche un miserabile o un pezzente ha il diritto di rifugiarsi nel proprio Io ed esternare la propria dignità e il senso della propria personalità, senza chiedere in prestito valori di vita ad altrui.
    Cordialità , Alfredo

  5. Bella domanda! Intorno a questa domanda ruota quasi tutto il pensiero moderno (e in parte quello antico, basti pensare alla sofistica e allo scetticismo), da Cartesio in poi. Questa tua domanda non avrebbe senso se non presupponesse la dicotomia soggetto/oggetto. La metafisica platonica e aristotelica, e poi quella agostiniana e tomistica, faceva dipendere la verità, quindi il “giusto” senso del discorso, cioè la logica (da logos), dall’essere, o essenza di ciò che è quello che è, e che non può essere diversamente (le idee di Platone, l’Atto puro di Aristotele, il Dio di Agostino e di Tommaso). Da Cartesio in poi, invece, la verità dipende dal soggetto pensante (cogito ergo sum). Nella tua domanda però emerge anche la questione del “realismo”: esiste una realtà “oggettiva”, indipendente dal soggetto che la pensa? E qui, come sai, i filosofi si dividono tra “realisti” e “idealisti”. Per gli uni la realtà è del tutto indipendente dal nostro pensiero, per gli altri non c’è realtà al di fuori del nostro pensiero (e, nel caso ci fosse, sarebbe inconoscibile). Chi ha ragione? Per ora lascio la domanda in sospeso. Riprenderò la questione in un prossimo articolo, ma senza la pretesa di dare una risposta esauriente.
    A presto.
    Fulvio

  6. Carissimo dottor Varriale, mi permetto di correggerLa dicendoLe che pur chiamandomi Andrea sono una donna, chiedo venia se il mio nome trae in inganno.
    Poi mi chiedo in quale punto del mio commento, lei abbia letto un qualsivoglia riferimento al fatto che “un miserabile o un pezzente” come lei li ha definiti, debbano necessariamente chiedere a prestito valori altrui? Evidentemente mi sono espressa male, poichè la mia affermazione è invero esattamente l’opposto di quanto da lei compreso. Proprio all’inizio ho parlato di chiunque percorra l’esistenza consapevole di esistere, non vedo quindi per quale strano motivo un pezzente non dovrebbe avere consapevolezza della propria esistenza mentre un filosofo o presunto tale dovrebbe averne.
    Fulvio attendo con estremo interesse il tuo prossimo articolo in merito, senza la presunzione di avere una risposta esauriente ma solo la mia risposta, che proviene dal libero pensiero di un essere umano consapevole di esistere:)
    a presto
    Andrea

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