Cambiare per non morire: Cilento sedotto ed abbandonato

Giuseppe Lembo

È da tempo, così come mi ero ripromesso, che non parlavo del Cilento, una terra meravigliosa che, nonostante tutto, mi porto sempre nel cuore. Il Cilento, con il suo fascino antico, con il suo paesaggio mozzafiato, fortemente suggestivo e per tanti versi unico, con il resto del Paese, ma con qualche marcia in più, è in grave sofferenza. È in sofferenza rispetto al napolicentrismo metropolitano della città di Napoli e del suo hinterland (da soli, pur rappresentando una piccola parte geografica della Campania, per il peso demografico con i 3 milioni circa di abitanti, rappresentano quasi metà dell’intera Campania); è in sofferenza anche rispetto a Salerno che, per rivalersi su Napoli, a sua volta, si rivale sui territori minori della provincia. È così nel Cilento, sempre più sedotto ed abbandonato, cresce il disagio ed il suo profondo malessere sia antropico che economico e sociale. Per contenere gli appetiti di Napoli pigliatutto, senza risolvere niente dei suoi mali profondi, la Campania deve dare corso all’area metropolitana di Napoli che diventa così, con la sua autonomia e le sue risorse, una vera e propria regione nella regione, senza invadere più oltre i diritti del suo vasto territorio e dei campani residenti in ben 550 Comuni. È urgente per non morire; è urgente per salvare la Campania minore e le sue popolazioni in tante parti ridotte a soli vecchi e senza alcun ricambio con forze giovanili, capaci di lavorare, di produrre ricchezza e di dare continuità umana ai territori, ormai ridotti a delle lande deserte, con una presenza umana in via di totale estinzione. Ma il problema non è solo dei piccoli comuni campani; si tratta di un problema grave diffuso in tutto il Sud d’Italia che nei prossimi decenni sarà interessato da un ulteriore esodo biblico con ben 5 milioni di giovani in fuga per altre e più vivibili realtà umane e territoriali. Siamo di fronte a situazioni di una tragicità estrema! Che si fa? Niente. Il Sud sta morendo per colpa di un malessere antropico veramente profondo e fortemente diffuso. Lo stato comatoso, senza essere e/o apparire catastrofici, è evidente e sotto gli occhi di tutti. Ma siamo di fronte a morte sicura e senza rimedio; occorre tentare di rimuovere le cause della sofferenza umana nelle realtà minori ed in quel mondo sommerso da piccolo mondo antico che ormai non interessa più nessuno. Le cause di tale disastro sono esterne ed interne agli stessi territori, dove tutto langue, tutto si trascina stancamente verso l’estrema ratio della inevitabile fine. Sarò impopolare per chi ipocritamente difende a parole e non nei fatti la propria autonomia territoriale, l’appartenenza al proprio campanile. Vanno riviste le autonomie locali, per maggiore funzionalità territoriali, per risparmio della spesa pubblica e per le cambiate condizioni dei luoghi non più isolati, non più irraggiungibili, non più disperatamente soli. Al posto del comune così come è adesso, così come gestito ai nostri giorni bisogna saper pensare ad un nuovo comune, un comune da città-territorio con mondi vitali più aggregati, con più forza ed espressione d’insieme, con più adeguate risposte di servizi ai cittadini per vivere meglio, per realizzare occasioni nuove utilizzando al meglio le risorse territoriali, per contenere quella emorragia umana fatale ed ultimo atto di una fuga senza ritorno ed una desertificazione che sarà, tra l’altro, fatale anche per la stessa conservazione dei territori, un tempo ormai lontano, in custodia ai guardiani naturali che erano gli abitanti e tra questi, soprattutto, il vecchio mondo contadino fortemente attaccato alla Terra che veniva affidata in uso da una generazione all’altra e sacralmente custodita, senza abusarne, per poi tramandarla. Qui con amore e cura c’era il lavoro virtuoso delle diverse generazioni che lavoravano la Terra pensando non tanto e solo a se stessi, ma anche a quelli che sarebbero venuti a goderne i frutti (il nonno piantava quello che con cura aiutava a crescere il figlio, per poi arrivare alla raccolta dei frutti da parte del nipote). Ormai non c’è più niente di tutto questo; non ci sono più testimonianze di quella virtuosità antica che serve ancora oggi in quanto legame tra una generazione e l’altra. Ormai, in città come in campagna, vince il principio del tutto e subito, del tutto e solo per me, con indifferenza assoluta per quello che verrà dopo di noi. Siamo veramente al principio della fine! Dopo queste osservazioni di carattere generale, torno al mio Cilento, al Cilento sedotto ed abbandonato e quindi al perché di questa mia attenta ed amara riflessione. Il Cilento, come detto in premessa, muore nella più generale indifferenza. Sono tanti i segnali tangibili di questa morte che trova le sue prime vere ragioni in una diffusa sofferenza antropica sia individuale che collettiva con cause che si possono far risalire a lontani comportamenti familistici e di assoluta incapacità d’insieme per pensare al bene comune. Non si sa stare insieme; le comunità e soprattutto l’uomo che le vive, soffrono di solitudine, di indifferenza per l’altro; spesso soffrono di invidia per l’altro ad un punto tale che tutto gira disperatamente su se stesso, producendo quel nulla esistenziale che logora e porta alla fine di quell’insieme sociale che non ha saputo mai essere società d’insieme, ma è rimasto come vincolo di un’appartenenza mutilata ad un mondo sempre più disunito, sempre più disumano ed egoisticamente alla sola ricerca del proprio bene, assolutamente indifferente del bene comune. Ma dopo queste osservazioni di come si vive nel Cilento una vita fortemente frantumata, mi propongo di analizzare le cause ed i mali che tolgono ogni prospettiva di futuro ai cilentani del Cilento. Perché? Perché ormai tutto va verso la fine. Tutto contribuisce ad accelerare lo sfascio umano e territoriale, contro il quale mancano le vere ragioni che dovrebbero appartenere all’uomo che vive nel Cilento, indifferente e rassegnato; convinto che non c’è niente da fare per cambiare, attende la fine che sarà data da una desertificazione selvaggia e dallo scivolamento a valle delle case abbandonate a se stesse. Perché questa mia visione apocalittica a proposito del Cilento? Non è, purtroppo, un’invenzione giornalistica; è un’amara constatazione di una realtà in rovina, soprattutto nelle sue aree più deboli, nei suoi insediamenti umani collinari, sempre più spopolati, sempre più soli e sempre più ad alto rischio di scivolare a valle, modificando anche gli aspetti antropomorfi di un territorio antico, oggi in grave sofferenza ed inesorabilmente prossimo alla fine. L’atteso miracolo del cambiamento possibile e quindi dello sviluppo sostenibile con l’entrata in vigore del Parco Nazionale del Cilento – Vallo di Diano istituito con la legge 394 del 6 dicembre 1991 (legge quadro sulle aree protette, pubblicata sulla G.U. n. 292 del 13/12/1991), purtroppo non c’è stato. Le cause problematiche di ieri sono anche le cause di oggi; si vanno, purtroppo, aggravando di anno in anno. Anche le poche cose fatte in termini di interventi ambientali e culturali, sono ormai cose passate. Il Parco territorio protetto è in grave affanno; è sempre più difficile capire di essere parte di un territorio protetto, tra l’altro, patrimonio dell’umanità di biodiversità, abbandonata a se stessa ed in grave crisi di conservazione. Altrettanto difficile è conservarne i territori ancora oggi cementificati ed impropriamente usati con gravi danni ambientali, poco rispettosi della natura protetta e di tutto ciò che contiene e che dovrebbe rappresentare una grande risorsa per lo sviluppo del territorio. L’elenco delle negatività di cui soffre il territorio, sono tante; ma proprio tante. È opportuno ricordarle una per una. Dalle negatività ambientali e quindi territoriali, alle gravi negatività umane e culturali. I beni culturali, ricchezza per eccellenza del Cilento, sono inopportunamente abbandonati a se stessi; tale la situazione di degrado e di abbandono delle aree archeologiche di Paestum e di Velia invase dalle sterpaglia; tale, per i siti minori; per la rete dei musei etnografici; tale il totale oscuramento culturale da vero e proprio Medioevo di cui soffre il territorio, silenzioso, addormentato e sempre più incapace di agire, pensando al bene comune, che non c’è e che, stando così le cose, mai, purtroppo, ci potrà essere. Ma oltre alla ricchezza culturale, c’è profondo malessere anche nel paesaggio; le coste soffrono di erosione crescente; le colline, in tante parti, sono aggredite da veri e propri mostri di cemento, che nascono come funghi, alterando il paesaggio;  lo rendono brutto allo sguardo umano. Anche la biodiversità territoriale è a rischio; ad ogni primavera il paesaggio verde viene aggredito e muore per un uso abusato di diserbanti che penetrano in profondità, creando danni irreversibili, con danno alla biodiversità e morte sicura di tante specie arboree spontanee e di tante specie animali (soprattutto insetti) che muoiono senza traccia alcuna. Dove sono le lucciole? A maggio rappresentavano uno spettacolo unico a vedersi. Dove sono le rondini con il loro concerto ed il loro piroettare nel cielo? Dov’è, in estate il canto del grillo? È stato usurpato da tanti inopportuni grilli parlanti, appartenenti alla specie umana. Tutto irrimediabilmente scomparso. Tutto solo parte di ricordi antichi e non più in eredità naturale trasmissibile, da una generazione all’altra. Ma, tra l’altro, dove sono gli antichi sapori? Per tanti prodotti, ormai scomparsi, ne resta il ricordo ed una confortevole suggestione. Se così è, allora che senso ha parlare degli aspetti salutistici della dieta mediterranea e di tutti quei tanti prodotti, un bene prezioso di altri tempi, dove il pane e la pasta si facevano in casa, il buono e salutare olio d’oliva non era avvelenato dai pesticidi dannosi per la salute umana, il vino (nettare degli dei), fatto con l’uva delle proprie vigne (vitigni dalle radici antiche) era il simbolo di un’ospitalità amica per chi veniva in casa a trovarti e dove i fichi bianchi (il dottato cilentano), il pane dei poveri, con la forza nutriente delle loro sostanze zuccherine, rappresentavano l’anima contadina di un Cilento che ormai non c’è più. Ricordare tutto questo non è il frutto nostalgico per un passato ormai scomparso; ed è scomparso, portandosi con sé l’identità, l’appartenenza, la genuinità antropologica di un popolo la cui mutazione genetica in atto, ha creato una confusione che non ha purtroppo saputo conservare quella diversità-ricchezza necessaria al DNA cilentano nel rapporto con gli altri del mondo globale in cui viviamo oggi e di cui facciamo parte come espressione della grande famiglia umana del mondo che ci impone, per non scomparire, di rimanere noi stessi, di conservare l’appartenenza e l’identità, una grande ricchezza nel confronto con gli altri. Tutto questo cambiamento confuso e senza identità, crea disagio crescente e confusione; per essere dei buoni cittadini del mondo, bisogna saper essere dei buoni cittadini in casa propria, amando, come necessario la pace, l’insieme sociale, la libertà (prima di tutto, la libertà dal bisogno). Per essere buoni cittadini del mondo bisogna saper rispettare gli altri dove si vive e pensare insieme a costruire il futuro guardando il proprio passato umano, di cui con intelligenza rinnovata, vanno eliminati i tanti difetti che non hanno permesso di crescere come comunità umana in cammino, diventando virtuosi protagonisti di progresso nei propri territori. C’è da allarmarsi per come, purtroppo, vanno le cose. Il Cilento sedotto ed abbandonato è in una condizione di grande sofferenza umana. Ripiegato su se stesso, senza la spinta motrice di chi lo governa come “baronetti” di tanti piccoli feudi, non sa virtuosamente agire e reagire. Ci sono nel Cilento troppi “Copratagonisti”; c’è nel Cilento una diffusa indifferenza istituzionale. Basta guardare a tutti gli interventi ed a tutte le risorse spese o meglio sprecate, comunitarie e non, purtroppo, senza sviluppo; basta considerare che, come sta succedendo, senza interruzione da 150 anni, non più con lo scatolo di cartone, ma con una elegante ventiquattrore in mano, ora come allora si emigra, esportando oltre alle braccia anche i cervelli, utili risorse per cercare altrove sviluppo e sopravvivenza umana. Perché si tollera tutto? Perché si accettano le strade colabrodo e ad alto rischio per chi le attraversa, con erbacce ovunque, esche per concrete possibilità di incendi che mandano in fumo pinete e tante aree tipiche della macchia mediterranea, parte del Cilento verde, perimetrato come area protetta, patrimonio dell’umanità da conservare anche per quelli che verranno? Perché in questo mese di luglio e soprattutto agosto il Parco che a giusta ragione promuove la dieta mediterranea permette le brutte sacre di prodotti completamente stranei al territorio cilentano? Perché, prima di tutto, non si promuove un utile percorso culturale e di conoscenza territoriale che permetta a chi non sa, di capire dove si vive e quali devono essere i comportamenti virtuosi e di civiltà per crescere insieme agli altri e creare positivamente, percorsi di vita per sé ed i propri figli, senza abbandonare i luoghi della propria appartenenza, che restano luoghi solitari e creano tanta sofferta nostalgia in chi li abbandona? Sono tanti i perché che hanno necessariamente bisogno di risposte intelligenti ed il frutto di un pensiero positivo che non possono certamente appartenere ai tanti “padroni” di un Cilento feudale, non utile a potervi costruire quel Cilento che verrà e che io, con tanti altri, mi auguro di cuore, per il bene della nostra gente, dei nostri giovani cilentani, ieri come oggi, in fuga da emigranti, per cercare, come sempre, pane e lavoro, altrove.