Fede e Ragione nel tardo Medioevo: lettura critica di un romanzo storico italiano

 Giovanni Lovito

In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. […] trattenuto ormai col mio corpo greve e malato in questa cella del caro monastero di Melk, mi accingo a lasciare su questo vello testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui mi accadde di assistere in gioventù, ripetendo verbatim quanto vidi e udii […] come a lasciare a coloro che verranno (se l’Anticristo non li precederà) segni di segni, perché su di essi si eserciti la preghiera della decifrazione. Il Signore mi conceda la grazia di essere testimone trasparente degli accadimenti che ebbero luogo nell’abbazia di cui è bene e pio si taccia ormai anche il nome […]. E’, questo, l’incipit di un romanzo storico pubblicato in questi ultimi tempi, il capolavoro di Umberto Eco Il nome della rosa. Un’opera, la cui interpretazione potrebbe rivelarsi, in un primo momento,  alquanto semplice; ma che, letta con una certa scrupolosità scientifica ed epistemologica, nasconde problematiche e questioni storico – filosofiche davvero interessanti. Il contenuto è ormai noto a tutti: un frate francescano, Guglielmo da Baskerville, supportato dal suo novizio, Adso da Melk, indaga su alcune misteriose morti che avvengono in un’abbazia di cui <<è bene e pio si taccia anche il nome>>. Il periodo storico in cui si svolge la vicenda è caratterizzato da rilevanti mutamenti storico-politici in Italia e in Europa: Papato e Impero, anche per il forte espansionismo delle monarchie nazionali, andavano man mano perdendo il loro prestigio politico; nelle città italiane continuava a infuriare la lotta tra Guelfi e Ghibellini; Marsilio da Padova, Bartolo da Sassoferrato e Guglielmo d’Ockham, fondatori del laicismo razionale, sostenevano il potere popolare (Universitas civium) e l’autonomia delle città, si opponevano all’egemonia ecclesiastica e formulavano nuove e rivoluzionarie teorie filosofiche e politiche. La sede apostolica da Roma, anche per l’ormai consolidata potenza della monarchia francese, con Clemente V era stata trasferita ad Avignone e Ludovico il Bavaro diventava nuovo “signore” dell’Impero. Due scuole di pensiero avevano predominato (e continuavano a predominare) nel panorama storico – culturale: quella guelfa del Santo d’Aquino e quella ghibellina di Dante, mentre una terza scuola si svilupperà successivamente con l’autore del Defensor pacis. Mediante lo sforzo congiunto di giuristi siciliani e francesi, infine, veniva formulata la teoria secondo cui rex in regno suo est imperator.In campo religioso i riformatori francescani sulle orme dei dolciniani si scagliavano duramente contro il Papato e la Chiesa, predicando il ritorno all’autenticità della parola divina e delle Scritture e sostenendo il valore della povertà. Senza dubbio emblematico, a tal proposito, risulta essere il personaggio Ubertino da Casale (1259 – 1330 ca), figura chiave nel romanzo, insieme a Remigio da Varagine, per comprendere l’importanza assoluta che ebbe il movimento francescano tra i secoli XIII e XIV.C’è un passo dell’opera, tuttavia, che  assume un certo rilievo nel quadro generale degli eventi: Guglielmo, giunto con il suo novizio tra le possenti mura della biblioteca monastica, rinviene il manoscritto con le pagine avvelenate (unica copia rimasta del secondo libro della Poetica di Aristotele) tra le mani del Venerabile Jorge e a quest’ultimo chiede il motivo della pericolosità di quel volume, visto che diversi trattati sulla “commedia” erano stati già scritti nel corso dei secoli. Il vegliardo, quindi, pronuncia il nome del filosofo greco la cui dottrina doveva essere assolutamente vietata tra le mura dell’abbazia: Aristotele. Altro problema: l’equilibrio tra aristotelismo laico e aristotelismo cristiano, tra fede e ragione. Lo Stagirita, in effetti, era stato al centro di un duro scontro “filosofico – teologico” sin dal secolo XII, sicché all’Aristotele “laico” si aggiunse, a partire dal ’200, il fisico, il moralista e il metafisico. E, se da una parte Averroè [1128 – 1196] aveva spinto il pensiero del Filosofo alle estreme conseguenze, separandolo e allontanandolo dal cristianesimo, dall’altra, due grandi Dottori domenicani, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino [1221 – 1274], tentarono la conciliazione delle dottrine aristoteliche con la Scrittura. L’Averroismo si diffuse nel corso dei secoli XIII e XIV e i suoi proseliti formularono e divulgarono la dottrina della <<doppia verità>>: la prima, propria della rivelazione; l’altra, della filosofia, della ratio e del naturalismo scientifico, con cui venne sancita l’eternità del mondo e si contestò a Dio di essere la causa efficiente della creazione e delle cose; negandogli, nel contempo, <<la prescienza dei futuri contingenti>>. Il secolo XIII fu attraversato da veri e propri attacchi anti–aristotelici soprattutto da parte della Chiesa. Nel 1210 l’insegnamento della Fisica e della Metafisica di Aristotele fu vietato in alcune Università europee; il vescovo di Parigi, a partire dal 1270, condannò gli averroisti, mentre l’Aquinate prendeva da loro le distanze, attaccandoli duramente. Anche se ciò non impedì a Sigieri di Brabante [1235 ca – 1282], seguace e divulgatore dell’<<aristotelismo radicale>>, di <<insegnare le tesi più avanzate del Filosofo colte attraverso Averroè>>.Dante, pochi anni dopo la sua morte, lo avrebbe collocato tra i Dottori in filosofia e teologia nel canto X del Paradiso [vv. 136 – 138], insieme ad Alberto Magno e san Tommaso, ricordandolo come colui che[…] leggendo nel vico de li strami  sillogizzò invidiosi veri>>. […], ovvero quale filosofo che, insegnando a Parigi nella rue du Fouarre (vico degli strami), dimostrò, mediante la ragione, alcune inconfutabili verità che gli procurarono l’invidia dei <<malvagi>>. Ed è chiara, anche in questo caso, l’allusione alle verità filosofico–aristoteliche, ammesse, anche se solo in parte, dallo stesso Tommaso. Ma perché un averroista nel decimo canto del Paradiso? Per quale motivo il Fiorentino pose l’ “eretico” Sigieri, accusato e perseguitato dall’Inquisizione di Francia per le sue strane idee religiose e filosofiche, tra i sostenitori della teologia scolastica, accanto ai testimoni eroici della fede? Sulla spinosa questione sono già intervenuti vari studiosi, tra cui il Nardi, il quale ritenne che il Sommo Poeta volle in tal maniera <<rialzare la memoria d’un onesto pensatore, grandemente stimato dai suoi contemporanei, la quale giaceva sotto i colpi inferti dall’invidia, e mostrarci riconciliati nel cospetto della verità eterna due grandi pensatori a lui cari, senza settarismo di scuola>>. Il revisionismo storico-letterario dovrà proseguire negli anni a venire, per conoscere in modo ancor più minuzioso e approfondito la Commedia dantesca, nella sua poliedricità scientifica, storica e “filosofica”; e, soprattutto, per formulare un’interpretazione culturale tesa a dimensionare il pensiero del Sommo Poeta secondo la misura del “suo” tempo, al di là di ogni eccessiva ingerenza di carattere religioso o spirituale. Aristotele, dunque: l’Anticristo per antonomasia, il nemico della cristianità doveva essere tenuto lontano dai giovani religiosi in formazione e, perché no, in odore di santità. Anche nell’abbazia ubicata <<a nord della penisola italiana>>, teatro di uccisioni e morti violente, l’Inquisizione (tribunale proclive non tanto a “guidare”, quanto a perseguitare e “uccidere”) fece il suo corso, facendo ardere sul rogo Remigio da Varagine e il gobbo Salvatore, eretici dolciniani “colpevoli” di aver confuso, in età giovanile, l’amore per la povertà con <<la cieca distruzione della ricchezza e del potere>>. Stregoneria e riti satanici furono posti a sostegno dei fantasiosi e bizzarri verdetti dell’inquisitore, mentre l’unica e inoppugnabile verità (l’odio, all’interno del cenobio, del sapere e della conoscenza; il ripudio dei libri proibiti e spiritualmente pericolosi; il secretum finis Africae), si sarebbe eclissata, insieme al ricordo dell’<<unico amore terreno>> del novizio di Melk, nel lento e perpetuo scorrere del tempo e della storia.

 

 

 

 

 

 

 

 

Un pensiero su “Fede e Ragione nel tardo Medioevo: lettura critica di un romanzo storico italiano

  1. Ultimamente si è parlato di crisi del “punto e virgola”.
    Finalmente una persona che lo usa e ne fa un buon uso!
    Questa lettura critica del romanzo, poi, è dettagliata e… sintetizzata.
    E’un piacere leggere questi scritti.

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