La pausa pranzo di Rotondi

 

Aldo Bianchini

Il problema della pausa mensa sollevato dal ministro Rotondi non è un falso problema e non deve essere assolutamente preso sottogamba. E’ un problema di fondo che attiene le retribuzione o meglio lo stipendio di milioni di dipendenti, soprattutto pubblici. Una ventina di anni fa il diritto alla mensa oppure all’indennità sostitutiva fu una vera e propria conquista epocale per il pubblico impiego. Per la prima volta si stabiliva un principio di eguaglianza tra dipendente pubblico e privato. Se però nel privato la “mensa” ha sempre funzionato alla perfezione nel senso che le grandi fabbriche attrezzavano veri e propri ristoranti interni o in alternativa, nel caso delle piccole e medie imprese e nel settore edile, concedevano l’indennità sostitutiva di importo notevolmente inferiore, comunque stabilito con decreto ministeriale provincia per provincia. Nel settore pubblico, invece, la conquista della mensa ovvero del “buono mensa” si trasformò subito in un “incremento salariale”; in pratica per milioni di dipendenti pubblici i venti/venticinque buoni-pasto mensili sono serviti e servono da anni per fare la spesa al supermercato. Svilita quindi la funzione del “buono mensa” che doveva servire per completare l’orario giornaliero di lavoro senza la necessità di dover andare a casa per il pranzo e poi ritornare in ufficio. Nella pratica attuazione quella conquista si spezzò subito in due tronconi. Uno, molto ridotto, di chi realmente faceva uso del buono-pasto per andare in mensa (è il caso delle grandi città); l’altro molto cospicuo di chi utilizzava il buono-pasto per fare la spesa al supermercato. E nel caso delle donne pubbliche-dipendenti si è perpetrato, nel tempo, anche un altro abuso, quello di andare a fare la spesa al supermercato con i buoni-pasto durante le ore di lavoro. Insomma il massimo dei massimi. Checchè ne dica il buon Brunetta, questa pratica scandalosa continua ancora oggi.  Ed è proprio in questo spaccato di abusi che si è inserita e va letta la proposta del ministro Rotondi. Del resto, con molta intelligenza, lo stesso ministro ha cercato di ridurre l’impatto mediatico con battutine di spirito per non finire aggredito e triturato da tutti. Il problema è serio perché toccherà la tasca di milioni di dipendenti pubblici per continuare ad avere diritto al buono-pasto dovranno rimanere negli uffici per un’ora in più. In pratica alle canoniche sei ore e quaranta minuti dovrà essere aggiunta un’altra ora di lavoro. Vale a dire che un dipendente pubblico che oggi entra in ufficio alle otto del mattino ed esce alle quattordici e quaranta, da domani se sceglie di usufruire del buono-pasto dovrà uscire dall’ufficio alle ore 15.40, con buona pace di tutti. Per molte donne sarà un dramma in quanto usufruendo dell’orario elastico se oggi entrano alle ore 9.00 ed escono alle ore 15.40, da domani dovranno uscire alle ore 16.40 con notevoli ripercussioni sulle abitudini familiari. Se poi consideriamo il problema nella sua globalità ci rendiamo subito conto che gli aspetti relativi al “contenimento della spesa” del pubblico impiego potranno ottenere un notevole miglioramento in quanto centinaia di migliaia di dipendenti pubblici saranno costretti a rinunciare al buono-pasto per non allungare il loro orario di lavoro. Il contenimento della spesa è valutato in alcuni milioni di euro al giorno; una bella cifra che potrà alleggerire le finanziarie del futuro. Ovviamente moltissimi dipendenti pubblici a fine mese si renderanno conto che le loro entrate sono state ridotte di almeno duecento euro; insomma brutta botta non c’è che dire. Bisognerà vedere se la trovata di Rotondi andrà avanti e supererà il fuoco di sbarramento dei sindacati che già stanno innalzando le loro barriere. In conclusione bisogna ripristinare il concetto di parità tra privato e pubblico. L’operaio della fabbrica per usufruire della mensa tornava a casa ogni giorno dopo le ore 17.00; il dipendente pubblico grazie alle protezioni non solo sindacali aveva conquistato la mensa ma furbescamente l’orario di lavoro era rimasto sempre fermo alle antiche abitudini. Chissà se è la volta buona per stroncare un fenomeno così costoso.

 

2 pensieri su “La pausa pranzo di Rotondi

  1. Che tristezza, questo accanirsi sempre più contro le libertà e i diritti elementari del lavoro che sembravano fatti acquisiti. La forza lavoro ha bisogno di “riprodursi” e i tempi di riproduzione (mangiare, vestirsi, dormire ecc.) sono tempi che vanno compresi in quello che è l’orario di lavoro e non sottratti al tempo libero. Io che lavoro dovrò pure mangiare, altrimenti non potrò neanche lavorare. Lo stesso discorso vale per i negozi aperti di domenica: si dice che bisogna fare lo shopping la domenica perchè durante la settimana bisogna lavorare. In questo modo si vuole la botte piena e la moglie ubriaca, lavorare e consumare, consumare e lavorare, e il tempo libero va impiegato per fare la spesa necessaria alla “riproduzione” della forza lavoro: niente più tempo libero speso gratuitamente a passeggiare, leggere o dedicarsi ad altre attività ricreative. Di questo passo si arriverà a dire anche che non è giusto che le ferie siano pagate: in effetti le ferie non sono altro che … una lunga pausa pranzo…ed è “giusto” che il lavoratore se la paghi da solo…

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