Tra Antigone e Ismene

Fulvio Sguerso

L’ultimo capitolo del libro Sii bella e stai zitta, Mondadori, 2010,  di Michela Marzano – una  raccolta di brevi ma puntuali, pregnanti e cristallini saggi  contro  le offese e le violenze d’ogni genere che ancora oggi patiscono le donne  in quanto donne, scritti anche  per offrire  “gli strumenti critici necessari per rifiutare la sudditanza al potere maschile”- è dedicato al presunto “gene” femminile dell’indignazione morale. “Quando Rousseau suggerisce l’esistenza, nella donna, di una sorta di ‘indignazione morale’ che sarebbe all’origine della civiltà, cerca solo di esortare le donne ad accettare la superiorità dell’uomo, limitandosi ad essere dolci, riservate, comprensive”. In questo modo, obbedendo alla propria vera natura, avrebbero anche aiutato e incoraggiato la virtù dell’uomo; anche per Rousseau quindi vale la “famosa distinzione ontologica uomo/donna”, e difatti leggiamo nel Libro Quinto dell’Emile: “Sophie deve essere donna come Emile è uomo, cioè avere tutto ciò che conviene alla costituzione della sua specie e del suo sesso per occupare il suo posto nell’ordine fisico e morale”. Ma in che cosa si differenzia la donna dall’uomo, secondo Rousseau?  “In tutto ciò che non è in rapporto col sesso la donna è uomo: ha gli stessi bisogni, gli stessi organi, le stesse facoltà; la macchina è costruita alla stessa maniera, i pezzi sono gli stessi, il congegno dell’una è quello dell’altro, la figura è simile e, sotto qualunque rapporto li si considerino, essi non differiscono fra loro che dal più al meno”. Tolto il sesso, non ci sono apparentemente differenze sostanziali, mentre “In tutto ciò che concerne il sesso, la donna e l’uomo hanno dappertutto rapporti e dappertutto differenze…Questi rapporti e queste differenze devono influire sul morale; questa conseguenza è sensibile, conforme all’esperienza e mostra la vanità delle dispute sulla superiorità o l’uguaglianza dei sessi…Una donna perfetta e un uomo perfetto non devono assomigliarsi più nello spirito che nel volto, e la perfezione non è suscettibile di più e di meno”. E fin qui sembrerebbe che i due sessi, proprio per la loro diversità di natura, fossero addirittura incomparabili tra di loro, in tal caso non avrebbe senso considerare la superiorità dell’uno sull’altro; e invece “da questa diversità nasce la prima differenza individuabile nel campo dei rapporti morali tra l’uno e l’altro. L’uno deve essere attivo e forte, l’altro passivo e debole…Stabilito questo principio, ne segue che la donna è fatta specialmente per piacere all’uomo. Se l’uomo deve piacerle a sua volta, si tratta di una necessità meno diretta; questi piace per il solo fatto che è forte. Non è questa la legge dell’amore, ne convengo; ma è quella della natura, anteriore all’amore stesso”. Dunque per Rousseau – come, prima di lui, per Aristotele e poi per Tommaso d’Aquino e su su fino a Schopenhauer et alii , la diversità sessuale non riguarda solo il bios ma anche l’ethos: le donne non sono solo diverse dagli uomini nel corpo ma anche nell’anima, e lo sono (o meglio, oggi possiamo dire, lo sarebbero) per natura, come se esistesse un’essenza femminile e un’essenza maschile stabilite ab aeterno.  Questa concezione essenzialista è confutata radicalmente da Michela Marzano: “Non esiste nessuna ‘essenza femminle’. Lo ripeto ancora una volta. A costo di annoiare. Ma è sempre meglio ripetersi che rischiare di essere fraintesi, soprattutto quando si hanno alle spalle centinaia di migliaia di pubblicazioni dotte, scritte per affermare l’esatto contrario”. Tra queste pubblicazioni potremmo citare le Lezioni di antropologia 1870-1910, in “Archivio  per l’antropologia e la etnologia”, Firenze, 1989, del medico e antropologo darwinista Paolo Mantegazza,  in cui troviamo la seguente asserzione: “la donna pensa come ama, l’uomo ama come pensa”, dove non è difficile riudire un’eco della “famosa distinzione ontologica uomo/donna”. Per la Marzano, invece: “La donna, per natura o per essenza, non è proprio niente. La donna non è naturalmente gentile, dolce, materna, fedele. Esattamente come non è naturalmente perfida, libidinosa o pericolosa. La donna è senz’altro diversa dall’uomo. Non per questo, però, è destinata a essere il suo esatto contrario. Gli atti di eroismo e i gesti di sacrificio non hanno sesso, La storia è piena di eroi e di eroine, di vittime e carnefici. Il problema è la ricostruzione storica che viene talvolta fatta di queste storie o ancora l’occultamento di tanti gesti di eroismo quotidiano femminile”. L’eroismo (come d’altronde la santità) non è appannaggio di un genere piuttosto che di un altro, e non mancano certo fulgidi esempi storici in tal senso; basti pensare a Ipazia, a Giovanna d’Arco, a Olympe de Gouges, a Eleonora Fonseca Pimentel, a Simone Weil, a Edith Stein, ad Anna Politkovskaja, “molte sono le donne che non hanno esitato a mettere la propria vita ‘sulla grande bilancia del destino’ come diceva Rosa Luxemburg, assumendo il rischio di sfidare le leggi degli uomini e di erigersi contro la barbarie”.

Antigone, nell’omonima tragedia sofoclea, rappresenta la legge divina non scritta che confligge con la legge positiva della polis, rappresentata dal re di Tebe, Creonte; Ismene, sorella di Antigone, rappresenta invece il modello femminile del suo tempo (e non solo, come abbiamo visto), debole, sottomessa e, almeno in un primo momento, obbediente al potere maschile costituito. “Antigone è sola. Nessuno osa ribellarsi a Creonte. Nemmeno Ismene, che cercherà invano di convincere la sorella a sottomettersi al re e a restare al proprio posto: ‘siamo nate donne, sì da non poter lottare contro uomini…essendo sottoposte a chi è di fronte dobbiamo obbedire a questi ordini e ad altri ancora più dolorosi’. Opponendosi a Creonte, Antigone incorre nel sacrificio estremo e muore. Gli dei renderanno omaggio al suo gesto eroico e Creonte rimpiangerà amaramente di non aver rispettato le leggi divine, perdendo, a sua volta, moglie e figlio. La battaglia morale è vinta, ma Antigone soccombe”. Né poteva finire diversamente, trattandosi di una tragedia. Ma quale insegnamento possiamo trarre da questo insanabile conflitto tra pietas e nomos, tra legge non scritta ma divina e legge scritta ma umana e, proprio perché umana, non sempre giusta?  Anzi, come in questo caso, senz’altro  ingiusta e crudele? “Che modello deve allora seguire la donna? – si chiede a questo punto Michela Marzano – Quello di Ismene o quello di Antigone? Il silenzio o la morte? Non sarebbe meglio, per la donna, potersi impegnare, ribellarsi alle ingiustizie e difendere i valori in cui crede, senza passare per il sacrificio?” . In altri termini: è possibile opporsi all’ingiustizia e stare dalla parte della verità “senza che ciò comporti automaticamente la morte? E’ anche la domanda che si pone Simone Weil (una delle sue filosofe  preferite), la cui conclusione radicale è che “amare la verità significa sopportare il vuoto; e quindi accettare la morte. La verità sta dalla parte della morte”. Per la Weil non c’è spazio per il compromesso: o si è pronti a morire per la verità o si vive nella menzogna, accettando e subendo, di fatto, l’ingiustizia del mondo. La Marzano, pur ammirando il rigore ascetico di Simone Weil, è meno drastica: “Anche se a volte, in nome della verità, si deve avere il coraggio di accettare la morte, la verità non è sempre dalla parte del sacrificio. Per uscire dall’alternativa secca Antigone/Ismene, la strada da percorrere è ancora lunga. Le ingiustizie cui si assiste sono molte. La verità fatica a emergere. Alcune donne preferiscono ‘obbedire’ anche quando gli ordini sono dolorosi. Per questo è importante intraprendere una lotta della memoria contro l’oblio: spetta a noi tutte tramandare l’eroismo di coloro che si sono sacrificate nel nome della verità, della giustizia, della libertà e dell’uguaglianza”. Uguaglianza che non significa – su questo la Marzano insiste – annullamento delle diversità (cosa peraltro impossibile) ma uguale dignità in quanto persone umane, titolari di uguali diritti e uguali doveri, che è poi il concetto che troviamo formulato  nell’ Art. 3 della nostra Costituzione: “Tutti i cittadini  hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politiche, di condizioni personali e sociali…”. Sì, certo; ma se ci guardiamo intorno, questo articolo di legge scritta assomiglia più a un principio astratto che a un’effettiva norma di civile e responsabile comportamento sociale. Eh sì, se ci guardiamo intorno (e magari anche dentro), “la strada da percorrere è ancora lunga”.