Come si rivaluta la cultura classica?

Ferdinando Longobardi

 Come si rivaluta la cultura classica? Anzitutto togliendola dalle mani dei suoi nemici. I quali si dividono in due tipi: gli aridi e i banalizzatori. Due specie opposte, forse, ma complementari tra loro. Della prima specie, gli aridi, troviamo non pochi rappresentanti principalmente tra i dotti, i professori e gli specialisti in genere. Essi hanno certo un grande merito: in oltre due secoli di scavo, di indagini condotte al microscopio e con spesse lenti a talpe, essi hanno riempito il corpo immenso dell’antichità di cunicoli, di sonde, di prelievi, talché nulla vi resta più – né un capello, né un poro – che non sia stato scandagliato, analizzato, rivoltato sottosopra, e infine inchiodato in bella mostra sotto forma di saggio, di articolo o di tomo di enciclopedia. Tra loro vi è chi ha scritto un volume su una desinenza, ma anche chi ha illuminato un mondo con una parola. Essi hanno ormai liberato il campo dalle menzogne, dalle incrostazioni, dalle false interpretazioni e dai travisamenti: da tutto ciò insomma che costituiva il risultato “scientifico” dei loro predecessori; in attesa che qualcun altro faccio lo stesso con loro. Ci hanno insegnato che i greci non hanno compiuto alcun miracolo, che i secoli d’oro non sono mai stati tali, che Licurgo e Omero non sono mai esistiti, che le biografie di tutti i lirici sono false. Non ci hanno spiegato, però, perché queste menzogne sono nate, perché paiono ancora affascinanti, e soprattutto perché sono state per noi più efficaci ed importanti di mille verità. Non ci hanno spiegato perché tutti continuano, dopo duemilacinquecento anni, da affaccendarsi intorno a quelle vestigia, a scavarle e a decifrarle, a ricomporle, e ad amarle. Ma essi hanno forse voluto proprio questo: sottrarre quei versi e quei marmi ai pregiudizi e ai fraintendimenti del proprio tempo (o, per essere più precisi, del tempo che li ha immediatamente preceduti), togliendo loro così di dosso le mani sudaticce e gli aliti dolciastri degli appassionati ingenui e degli ammiratori inopportuni. Hanno infine combattuto in buona fede la menzogna, e innalzato con orgoglio il loro edificio, anche piccolo, di incrollabili verità. Hanno con ciò contribuito a rivalutare il classico? Certo non era questo il loro scopo. Uno scienziato che voglia essere reputato tale non può riproporsi alcun fine di questo genere – almeno così essi dicono. Il loro motto deve essere nihil admirari: guai a farsi scoprire in un momento di estasi o di debolezza. In parte sì, perché il loro lavorio coscienzioso e indefesso ha realmente portato alla luce ciò che prima era ricoperto dalla patina dei millenni o sotterrato nella caverne dell’oblio. Ci si potrebbe domandare a che serve tutto questo? Che cosa ha a che fare con la vita? Non è una domanda futile e trascurabile: perché è la domanda che si saranno posti, e che certo continuano a porsi, le centinaia di migliaia di ragazzi e di ragazze che studiano ancora oggi, la consecutio temporum e gli aoristi, gli esametri di Esiodo e i frammenti dei presocratici. Ora, che se la pongano è un brutto segno, poiché vuol dire che nessuno ha provveduto a dare loro una risposta. Ma il non porsela sarebbe ancora peggio: un indizio di morte interiore, di indifferenza non tanto verso la cultura, quanto verso la vita.