I Gattopardi che difendono la cattiva scuola

Angelo Cennamo

Avevo 17 anni, o giù di lì, quando con i miei compagni di liceo scioperavo contro la riforma della scuola che un anziano ministro democristiano, anche lei  donna come Stefania Giannini, Mariastella Gelmini e Letizia Moratti, si apprestava a varare, nel tentativo di risollevare le sorti dell’istruzione italiana già a quel tempo sul viale del peggiore decadimento. Il ministro si chiamava Franca Falcucci e non so che fine abbia fatto dopo quella caotica stagione scolastica e politica. Marinavamo la scuola non per aggregarci ai soliti cortei piagnucolanti dei professori, ma per andare a giocare a pallone nel campetto poco distante dal liceo. Ne ricordo ancora il nome: “I Sabatini”. Da allora sono passati 30 anni, ma la situazione è rimasta la stessa: tutti i ministri dell’istruzione che si sono succeduti dopo Franca Falcucci sono stati contestati dagli studenti, dagli insegnanti e soprattutto dai sindacati.  E’ una sorta di rito che si ripete dal ’68, ovvero da quella stagione infausta che ha dato origine al disfacimento della famiglia, prima, poi della scuola e delle università, infine della società nella sua interezza. Cosa chiedono e cosa temono i manifestanti. In buona sostanza tre o quattro cose: solo scuola pubblica, scarsa trasparenza nella gestione dei plessi scolastici, livellamento egualitario verso la mediocrità ( nel timore forse che un insegnante più competente possa far emergere le lacune degli altri colleghi), e la chiusura della scuola ad ogni forma di contaminazione capitalistica da parte di aziende e fondi privati. Gli studenti, che notoriamente non sanno nulla, spronati dalla classe docente – un gradino appena più in alto rispetto a quella discente – vorrebbero avere più voce in capitolo nella rifondazione dell’istruzione. Altrettanto i sindacati, che nel corso degli ultimi decenni hanno contribuito non poco alla devastazione delle scuole medie e delle superiori. Infine gli insegnanti, preoccupati prima di ogni altra cose del posto fisso e dello scatto di anzianità. Il nemico di turno oggi è  Matteo Renzi e la sua #buonascuola. Il premier qualche giorno fa, in manica di camicia e con la solita maestria comunicativa, ha illustrato le linee guida della riforma che ha in mente il suo governo, davanti a una lavagna che ci ha ricordato molto la scuola del passato. Quella, per intenderci, che, chi appartiene alla mia generazione, ha fatto giusto in tempo a frequentare prima che cominciasse via via a perdere pezzi e credibilità.  Senza addentrarci nei particolari tecnici e cavillosi della nuova normativa, i tratti salienti della riforma approntata dal ministro Giannini sono più o meno i seguenti: l’attribuzione di maggiori poteri ai presidi – che potranno scegliere gli insegnanti direttamente da un albo territoriale in base alle esigenze dell’istituto che dirigono; il coinvolgimento degli studenti –  a partire dall’età di 16 anni – ad attività extrascolastiche nelle aziende dei loro territori; un tirocinio professionale per i vincitori di concorso, prima dell’esordio effettivo dietro la cattedra; la valutazione periodica degli insegnanti da parte di un organismo costituito da genitori, studenti e dallo stesso preside, con aumento di stipendio per i più meritevoli. Pochi accorgimenti di buon senso che dovrebbero, quanto meno, contribuire ad introdurre nelle nostre scuole ( dati alla mano, le peggiori d’Europa) elementi di meritocrazia, competizione e trasparenza. Gli stessi che i soliti gattopardi del “parassitismo statale” vorrebbero invece ostacolare in nome dell’egualitarismo esasperante che rifiuta la distinzione del più bravo dal mediocre, il pluralismo nell’offerta formativa e il connubio scuola-azienda.  Non sono un elettore di Renzi, ma da liberale impenitente non posso che stare dalla sua parte.