Che Scuola difendiamo?

 Aurelio Di Matteo

Per raggiunti limiti di età, come si suole dire, da quattro anni ho lasciato la scuola. Dico subito senza rimpianti, per ciò che era diventata e per come da anni la classe dirigente – ministri, politici, amministratori locali, sindacalisti, sedicenti esperti – (non) affrontava i suoi veri problemi. Girovagando sul web, m’imbatto su un ampio e scientificamente approfondito rapporto elaborato dal CNEL e fresco di stampa, marzo 2013. Il titolo sembra non avere niente a che vedere con la scuola perchè riguarda “Il benessere equo e sostenibile in Italia (BES)”. Non è così. Le pagine, le analisi e le diagnosi più interessanti sono centrate su istruzione e formazione, ricerca e cultura, perchè questo studio ritiene giustamente che l’istruzione è una risorsa personale fondamentale per conseguire e gestire il benessere. I percorsi formativi hanno un ruolo essenziale nel fornire agli individui le conoscenze, le abilità e le competenze di cui hanno bisogno per partecipare attivamente alla vita della società e all’economia del Paese. Istruzione e formazione rappresentano uno degli indicatori principali per un’indagine sulle condizioni di un Paese, secondo le nuove teorie che ritengono gli indicatori del PIL ormai insufficienti a individuare i problemi dello sviluppo economico e sociale. Sono queste pagine a richiamarmi al vecchio mestiere e a ridestare i sopiti sentimenti d’indignazione che hanno riempito gli ultimi anni del mio consueto lavoro. Per evitare equivoci: nulla contro i docenti e gli altri operatori della scuola, ma molto contro i responsabili istituzionali, i politici e i sindacalisti, abbastanza con i genitori. Sono questi, infatti, che da sempre insorgono a difesa di una scuola che non c’è, trasformata progressivamente in Centro per l’impiego, in parcheggio per bambini, prima, di adolescenti dopo e, infine, per giovani iper protetti. E volete che i docenti non risentano di queste istanze e queste condizioni e, di conseguenza, non assumano posizioni ad esse coerenti? I risultati? Sono tutti in questo rapporto. Nello stesso tempo apprendo di uno studio elaborato in Inghilterra, riferito a 15 Paesi, riguardante i figli che vanno a scuola da soli o accompagnati. Sono due fotografie del modo in cui sono visti la scuola, il suo rapporto e ruolo nella società e la sua funzione nella crescita formativa dei giovani; due fotografie da un lato deprimenti e dall’altro scientificamente valide per chi voglia una seria riforma della Scuola che dia soluzioni alle profonde criticità del nostro sistema d’istruzione e formazione a tutti i livelli. Purtroppo il CNEL, che nel panorama internazionale è considerato un organismo di eccellenza, dal nostro Parlamento è ascoltato come il grillo parlante da Pinocchio. E non è che trovi ascolto e attenzione in altri luoghi. La stampa e i media non sono da meno. A quel che ho letto, soltanto un quotidiano e nelle sue pagine regionali – Corriere del Mezzogiorno ed. campana – ha mostrato interesse al rapporto, peraltro il primo elaborato utilizzando indicatori dello sviluppo e del benessere diversi da quelli tradizionali del PIL. Istruzione e benessere vanno di pari passo, ma l’Italia non è ancora in grado di offrire ai giovani la possibilità di un’educazione adeguata. Il divario rispetto alla media europea e il fortissimo divario territoriale interno si riscontrano in tutti gli indicatori che rispecchiano istruzione, formazione continua e livelli di competenza. Anche la partecipazione culturale – spettacoli fuori casa, visite ai Musei, monumenti e mostre, lettura dei quotidiani – è in netta diminuzione anche dove era più elevata e colloca l’Italia agli ultimi posti in Europa. La situazione è ancora più grave se riferita alle differenze territoriali che vedono il gap del Mezzoggiorno inalterato, anzi per alcuni indicatori peggiorato. E all’interno del Mezzogiorno la Campania si colloca quasi per tutti gli indicatori negli ultimi posti. In questo deprimente quadro di sintesi, tratto testualmente dal Rapporto, quello che più deve far riflettere sono le risultanze dell’indicatore relativo alle competenze alfabetiche e linguistiche per le quali il punteggio degli Istituti tecnici del Nord è superiore a quello dei Licei del Mezzogiorno. È una fotografia desolante della scuola pubblica che sindacati e forze politiche si ostinano a difendere per mantenere inalterati strutture organizzative, ritualità didattiche, rapporti di lavoro, insindacabilità di operato e funzione, sperpero di denaro erogato dall’Europa per attività più ludiche che formative e per dotazioni inutilizzate o solo di orpello durante gli open day. E in tutto questo, le famiglie? La fotografia è fornita dalla citata ricerca elaborata dal Policy Studies Institute di Londra. In Italia i bambini della fascia dell’obbligo che si recano a scuola da soli rappresentano il 7% e la percentuale di quelli che, sempre da soli, prendono i mezzi pubblici scende al 3%. Al confronto le percentuali del Regno Unito e della Germania salgono rispettivamente al 41 e 40 %, al 25 e al 64 %. Indipendentemente dalle risultanze di questo studio, allo scrivente che periodicamente trascorre qualche settimana a Londra e, da buon “nonno italiano”, accompagna le nipotine a scuola, non sfuggono due cose: bambini che percorrono a piedi lunghissimi tratti di strada, con il clima non certo mediterraneo, e i tanti che lo fanno da soli. Lascio ai miei dieci lettori il confronto con gli ingorghi di auto strombazzanti e di mamme apprensive in orario scolastico, le modalità di “partecipazione” dei genitori italiani ai “dibattiti” e agli oragnismi di partecipazione scolastica! Senza escludere nessun Governo, nè fare sconti a un qualche Ministro, nella storia della politica scolastica italiana dal secondo dopoguerra in poi, mi sento di citare con positività soltanto il Presidente Einaudi che aveva intuito il primo e fondamenatle totem da abbattere per iniziare una seria riforma del sistema formativo: eliminare il valore legale del titolo di studio. Il resto sarebbe venuto da solo: competenza e dedizione dei docenti, meritocrazia e retribuzioni differenziate in orizzontale e in verticale, partecipazione consapevole delle famiglie, finalizzazione delle risorse, integrazione di scuola e mondo del lavoro, valorizzazione delle specificità personali, formazione come risorsa economica, autonomia gestionale e valutazione come verifica promozionale dei processi. Senza questi aspetti riformatori, sui quali c’è un trasversale silenzio assordante o un’ideologica e pregiudiziale opposizione, la Scuola, più che difenderla, sarebbe meglio chiuderla.  Solo che per fare ciò ci vuole consapevolezza e coraggio culturale, prima, e, dopo, forza, responsabilità e coerenza politica.