Il conforto del carnefice

Maddalena Robustelli
Ha già fatto il giro del mondo la fotografia di un giovane iraniano condannato a morte che, immediatamente prima dell’esecuzione, si è abbandonato in un sommesso pianto sulla spalla del proprio boia. La testa leggermente reclinata nella consapevolezza di avere esigui istanti di vita non la si è negata, ma chi di lì a poco avrebbe stretto la corda intorno al collo della vittima dell’impiccagione è andato al di là del mero gesto di umana pietà. Poteva, ossia, limitarsi a dare appoggio a quel capo ed invece la mano avvinghiante del boia è apparsa a tutti evidente in quello strano abbraccio, anomalo perché destinato ad una vita che egli stesso avrebbe fatto cessare soltanto alcuni minuti dopo quella compassionevole stretta. Il dovere supremo di comminare la pena capitale in segno di evidente rispetto dei dettami previsti dalla legge islamica, fin troppo crudele riguardo al reato di assalto e furto, non è riuscito a togliere dal più profondo dell’animo del carnefice quel sentimento di compassione, portandolo naturalmente ad essere vicino al condannato a morte. Un obbligo troppo forte all’obbedienza non gli ha impedito di indulgere in quell’abbraccio, eppure nessuno l’ha costretto a quella condotta, anzi l’ha sentita salire spontaneamente dal profondo dell’animo. Forse la paura di poter incorrere in una sanzione, laddove non avesse svolto il suo compito di boia, l’ha spinto con la mente a non ribellarsi al suo ruolo di carnefice e, ciò nonostante, il cuore gli ha imposto una condotta improntata alla misericordia verso quel giovane. Ma è lecito contestare e, andando oltre, ribellarsi alle regole di leggi ingiuste, sia esse sacre o profane? Una religione o uno Stato, che si allontanino dal rispetto del valore della giustizia, legittimano o no ad un moto spontaneo di critica avverso le proprie leggi?La Storiarisponde di sì ed in un altalenante avvicendarsi di corsi e ricorsi lo vede prevalere o soccombere sulla terra, a seconda della maggiore o minore capacità di salvaguardare l’equità come elemento fondante di ogni comunità in ogni luogo ed in ogni tempo. Ma, al di là della condanna della pena di morte come strumento estremo di castigo – condanna che dovrebbe accomunare tutti a prescindere dal proprio credo religioso e no- cos’è che induce noi occidentali a protestare più veementemente contro le esecuzioni capitali che avvengono nei Paesi occidentali e ad indignarci solamente laddove lo stesso evento accada in quelli islamici? E’ solo una questione di ritrosia, perché non li consideriamo degni nostri interlocutori, oppure è la paura di infrangere  un delicato equilibrio tra noi e loro? Eppure le vittime hanno lo stesso colore del sangue e ciò dovrebbe indurre a sostenere universalmente ogni forma di contrasto a quanti sono ancora dell’opinione che le pene di morte possano costituire una sorte di deterrente a commettere reati! Succede così che una semplice fotografia possa comportare pensieri e riflessioni più ampie, che vanno al di là dell’immagine che è sotto i nostri occhi. Chissà se quell’abbraccio del carnefice al condannato potrà impietosire altri iraniani o più in generale altri  islamici e no, tanto da indurre anche loro a pensare oltre a quell’abbraccio. Il cardinale Martini soleva dire che “ciascuno di noi ha in sé un credente e un non credente che si interrogano a vicenda”, invogliandomi a sperare vivamente che il dubbio si insinui in quegli uomini, occidentali ed orientali,  favorevoli alle esecuzioni capitali  almeno per quel poco che possa portarli a riflettere su ciò che sta dietro a quella mano del boia avvinghiante la spalla del giovane detenuto. Per far vincere la pietà compressa dal dovere dell’obbedienza, per far prevalere il perdono soggiogato dal rispetto della legge, per far trionfare la vita condannata ad una morte disumana.