La propaganda perdente

Amedeo Tesauro

Gli americani usano sminuire l’opinione delle grandi masse come opinione di secondo piano, rigettando il populismo sempre dietro l’angolo. Orgogliosi di decine di teorici della comunicazione e del loro alto grado di preparazione nel campo, spiegano l’antipolitica come squilibrio tra il pensiero della massa, che potrà pur essere ipoteticamente debolissimo ma porta con sé la potenza del numero, e il pensiero delle istituzioni, ovvero divario tra rappresentati e rappresentanti. Basta poi un pizzico di sagacia per comprendere che più le istituzioni falliscono o recepiscono male la vox populi, più l’antipolitica sale, come un avversario che per ottenere la vittoria non necessita di fare le proprie mosse: basta soltanto che a sbagliare sia l’altro. L’anno e mezzo di governo a cui è stato chiamato Mario Monti non ha rappresentato soltanto il fallimento della politica intesa come gestione e risoluzione dei problemi del paese, si è configurato ancor più come il crollo verticale della reputazione politica tutta; allo stesso tempo questo lasso di tempo doveva obbligatoriamente essere l’occasione per tentare una ricostruzione di talereputazione, segnata duramente da anni di scontri frontali in nome di un bipolarismo lontanissimo dalle sue progettazioni teoriche nelle quali due poli, centro-destra e centro-sinistra, si sarebbero incontrati al centro favorendo una cooperazione. D’altronde il botto era stato grossolano, chiamare a Montecitorio un governo di tecnici a fare ciò che la politica non era stata in grado di fare e ammettere che la politica non veniva più prima di tutto (vecchissimo slogan del PSI di Nenni) segnava un punto basso come pochi altri. Bisognava svoltare, fare qualcosa, costruire una nuova retorica magari, e quando si parla di comunicazione il primo a gettarcisi sopra è stato Berlusconi, desideroso di abbandonare la dicitura di partito e reinventarsi movimento alla maniera di Grillo, ma si tratta di retorica talmente scontata che nessuno vi ha dato peso, inoltre il PDL paga lo scotto di essere l’ultimo regnante e il richiamare il leader al centro della scena è l’estremo atto per raggruppare i fedelissimi nell’ennesima battaglia; del resto fu proprio Berlusconi il primo a capire il valore della comunicazione in politica, forte della sua esperienza aziendale e intenzionato a riprenderne la logica industriale mise assieme un team di esperti per la sua discesa in campo, dando vita a quello che è stato poi definito il “partito personale” imitato poi dagli altri partiti della Seconda Repubblica incentratisi non attorno a degli ideali ma a degli uomini. Guarda caso una rivoluzione strutturale vincente in un momento in cui il vecchio apparato era caduto, situazione non dissimile dal presente dove un ciclo si è chiuso e presto se ne aprirà un altro con partiti incapaci però, questa volta, di rinnovare e mostrarsi differenti. Ignorando l’opinione pubblica hanno ignorato la missione a cui erano stati chiamati nella pausa indotta da un governo non eletto: prima ancora di tessere alleanze bisognava riappropriarsi della propria immagine, di una reputazione svanita con gli anni, non rivendicare soltanto il potere e le poltrone, ma svecchiarsi, invece nulla, non un’idea per riportare la politica a un prestigio lontano, né un guizzo retorico che faccia pensare a qualcosa di differente. Mentre Berlusconi tenta di compattare le truppe, a destra la Lega paga l’enorme scandalo che l’ha vista coinvolta e perso il tradizionale baluardo dell’onestà va incontro a un contraccolpo pesantissimo; al centro Casini ricama sui vecchi schemi del compromesso centrista; a sinistra a approfittarne doveva essere Vendola e il suo rinnovamento, ma il ciclone Grillo ha mostrato a tutti come le parole e le rappresentazioni possano invecchiare nel giro di un attimo, così Vendola è rientrato nei ranghi della politica classica senza essere ancora in parlamento. L’IDV di Di Pietro può vantare un solido appeal sul suo elettorato, e può dire di aver  promosso iniziative vincenti come il referendum dai quattro quesiti che tanto clamore suscitò un anno fa, referendum esemplare della mancanza di feeling di quello che molti sondaggi danno come prossimo partito di governo, il Partito Democratico. Il PD non sostenne la causa con sufficiente convinzione, si limitò a gioire di una vittoria non sua mostrando una distanza dal proprio elettorato che, a un anno di distanza, appare ancor più palese: netta è la spaccatura tra i votanti orientati a sinistra e un apparato che media al centro come la migliore DC. E intanto cresce l’antipolitica che più che tradursi in voto a un movimento pronto a raccoglierli come l’M5, che i suoi demoni li ha e son sempre meno nascosti, si traduce in incertezza e astensionismo. Fin qui sarebbero solo prediche, ma in un sistema polarizzato al massimo come quello statunitense vi è l’esempio Obama, capace di ridare fiducia all’elettorato e porsi a capo di un progetto politico percepito come innovativo con una campagna vincente impostata sui social e i new media, all’insegna di un contatto concreto. Vi sia stato poi un rinnovamento effettivo o meno non conta, ristabilire il nesso tra l’operare politico e il popolo è una vittoria d’immagine a cui far sempre riferimento nei momenti bui, una base comunicativa forte per successivi scontri mediatici. In Italia manca un volto nuovo e chi è tale usa mezzi vecchi. La politica si è convinta inspiegabilmente che il ruolo di rappresentanza sia dovuto senza la promessa, a questo punto obbligatoria, di cambiamento. Dato che quel cambiamento non sussiste nelle intenzioni, non sussiste nemmeno nella propaganda che si delinea perdente a ogni latitudine.