Scuola terminale e ombelico del mondo di malessere nel difficile rapporto Famiglia-Scuola

Scuola terminale e ombelico del mondo di malessere nel difficile rapporto Famiglia-Scuola
Dirigente Scolastico Michele Cirino 
Il grande poeta della canzone già aveva previsto tutto….
Tutto il dramma dell’inadeguatezza genitoriale misto al sentimento di iper protezione portata a livelli sconfinati che ha fatto dei ragazzi spesso dei bulli senza linee ed orizzonti comportamentali. Il tutto illustrato poeticamente dal grande Fabrizio De André
L’Ottocento di de André come il XXI sc di oggi forse dai contrasti e criticità ancor di più amplificati con genitori iperprotettivi, famiglie destrutturate e perse nelle derive anarchiche del consumismo e dell’edonismo…..
Con i giovani a rischio di finire … come dice de André…. NEL NAVIGLIO. Per colpa soprattutto degli adulti oggi spesso osservatori, adulatori dei figli e non più educatori…..
Al rendimento scolastico dei nostri figli, siamo soliti dare un’importanza che è del tutto infondata. E anche questo non è se non rispetto per la piccola virtù del successo. Dovrebbe bastarci che non restassero troppo indietro agli altri, che non si facessero bocciare agli esami; ma noi non ci accontentiamo di questo; vogliamo, da loro, il successo, vogliamo che diano delle soddisfazioni al nostro orgoglio. Se vanno male a scuola, o semplicemente non così bene come noi pretendiamo, subito innalziamo fra loro e noi la bandiera del malcontento costante; prendiamo con loro il tono di voce imbronciato e piagnucoloso di chi lamenta un’offesa. Allora i nostri figli, tediati, s’allontanano da noi. Oppure li assecondiamo nelle loro proteste contro i maestri che non li hanno capiti, ci atteggiamo, insieme con loro, a vittime d’una ingiustizia. E ogni giorno gli correggiamo i compiti, anzi ci sediamo accanto a loro quando fanno i compiti, studiamo con loro le lezioni. In verità la scuola dovrebbe essere fin dal principio, per un ragazzo, la prima battaglia da affrontare da solo, senza di noi; fin dal principio dovrebbe esser chiaro che quello è un suo campo di battaglia, dove noi non possiamo dargli che un soccorso del tutto occasionale e illusorio. E se là subisce ingiustizie o viene incompreso, è necessario lasciargli intendere che non c’è nulla di strano, perché nella vita dobbiamo aspettarci d’esser continuamente incompresi e misconosciuti, e di essere vittime d’ingiustizia: e la sola cosa che importa è non commettere ingiustizia noi stessi.
I successi o insuccessi dei nostri figli, noi li dividiamo con loro perché gli vogliamo bene, ma allo stesso modo e in egual misura come essi dividono, a mano a mano che diventano grandi, i nostri successi o insuccessi, le nostre contentezze o preoccupazioni. È falso che essi abbiano il dovere, di fronte a noi, d’esser bravi a scuola e di dare allo studio il meglio del loro ingegno. Il loro dovere di fronte a noi è puramente quello, visto che li abbiamo avviati agli studi, di andare avanti. Se il meglio del loro ingegno vogliono spenderlo non nella scuola, ma in altra cosa che li appassioni, raccolta di coleotteri o studio della lingua turca, sono fatti loro e non abbiamo nessun diritto di rimproverarli, di mostrarci offesi nell’orgoglio, frustrati d’una soddisfazione. Se il meglio del loro ingegno non hanno l’aria di volerlo spendere per ora in nulla, e passano le giornate al tavolino masticando una penna, neppure in tal caso abbiamo il diritto di sgridarli molto: chissà, forse quello che a noi sembra ozio è in realtà fantasticheria e riflessione, che, domani, daranno frutti.
Se il meglio delle loro energie e del loro ingegno sembra che lo sprechino, buttati in fondo a un divano a leggere romanzi stupidi, o scatenati in un prato a giocare a football, ancora una volta non possiamo sapere se veramente si tratti di spreco dell’energia e dell’impegno, o se anche questo, domani, in qualche forma che ora ignoriamo, darà frutti. Perché infinite sono le possibilità dello spirito. Ma non dobbiamo lasciarci prendere, noi, i genitori, dal panico dell’insuccesso. I nostri rimproveri debbono essere come raffiche di vento o di temporale: violenti, ma subito dimenticati; nulla che possa oscurare la natura dei nostri rapporti coi nostri figli, intorbidarne la limpidità e la pace. I nostri figli, noi siamo là per consolarli, se un insuccesso li ha addolorati; siamo là per fargli coraggio, se un insuccesso li ha mortificati. Siamo anche là per fargli abbassare la cresta, se un successo li ha insuperbiti. Siamo per ridurre la scuola nei suoi umili ed angusti confini; nulla che possa ipotecare il futuro; una semplice offerta di strumenti, fra i quali forse è possibile sceglierne uno di cui giovarsi domani.
Quello che deve starci a cuore, nell’educazione, è che nei nostri figli non venga mai meno l’amore per la vita, né oppresso dalla paura di vivere, ma semplicemente in stato d’attesa, intento a preparare se stesso alla propria vocazione. E che cos’è la vocazione di un essere umano, se non la più alta espressione del suo amore per la vita?»
Sta diventando sempre peggio l’intromissione dei genitori nell’operato dei docenti. Una cosa veramente disdicevole che tenta ancor più di sminuire la figura e la professionalità dell’insegnante.
Ci sono genitori che accettano la valutazione dei propri figli consapevoli delle potenzialità da una parte e dall’altra ci sono genitori che pensano di dettare legge su come il docente deve operare. La valutazione spetta unicamente al professore ma qui si sta oltrepassando il limite. Questa situazione è molto diffusa nel primo ciclo d’istruzione e meno nel secondo ciclo e sta ingenerando un circolo vizioso che appiattella il nostro sistema d’istruzione. Poco ci manca che il docente chiede al genitore: “Che votazione devo mettere a sua figlio” perché sono molto frequenti casi di genitori molto apprensivi nei riguardi dei figli e non permettono loro di poter “volare” con le loro ali.
Ecco perché poi i docenti si trovano di fronte a scene di alunni si smarriscono di fronte ad una pagina bianca, ad un compito di matematica che non sanno risolvere. La colpa risiede, spesso, nelle eccessive aspettative che i genitori ripongono nei figli e questo è assolutamente deleterio nella crescita psicofisica degli alunni, li danneggia e non permette di esprimere al meglio il talento che possiedono. I genitori non educano più, ma svolgono soltanto la funzione di sindacalisti dei figli. Li appoggiano in tutto e per tutto, dicono sempre di sì e mai più no, fanno tutto ciò che i figli vogliono.
I ragazzi di oggi dettano le regole in casa e fuori dalle mura domestiche. I padri e le madri sono proni ai loro comandi e guai a dissentire: alzano le mani contro gli insegnanti e zittiscono chi li ha messi al mondo. Ha perfettamente ragione lo psichiatra Paolo Crepet quando lancia senza se e senza ma un atto di accusa contro la famiglia, ormai incapace di far rispettare le regole.
Tuttavia non dobbiamo generalizzare ma nella stragrande maggioranza dei casi è la nuda e cruda realtà, quella che viviamo tutti i giorni e che le cronache quotidiane ci propinano. Essere genitori oggi è molto difficile, a volte è un’impresa titanica educare al buon senso, rispetto delle regole della civile convivenza.
Accontentare sempre e comunque genera un “male” diffuso e fa “ammalare” il tessuto sociale. Dobbiamo metterci in testa che la scuola da sola non ce la fa a reggere l’urto della violenza: ha necessariamente bisogno della famiglia che deve dare l’impostazione educativa. Ci dobbiamo convincere che quel famoso “Patto di corresponsabilità” che al momento dell’iscrizione viene consegnato alla famiglia, va letto, riletto, meditato, evidenziato altrimenti non serve a nulla…è solo carta straccia. I genitori devono imparare bene il loro mestiere di “essere genitori”, responsabilizzando i figli, non aiutandoli a superare l’asticella degli ostacoli, perché le difficoltà nella vita si incontreranno sempre. Bisogna far capire ai figli che non è
sempre scontata la vittoria, ma che è necessario saper accettare anche l’amarezza della sconfitta.
Perché prima o poi la vita ti porterà ad affrontare grandi sfide e allora per i nostri ragazzi subentra la demoralizzazione, lo sconforto, il tedio, il “male di vivere” per citare Eugenio Montale. Per affrontare le emergenze educative è urgente
ripartire dal tessuto familiare, quel tessuto che è ormai sfibrato, reciso, senza più cuciture e smetterla una volta per tutte di attribuire tutta la responsabilità alla scuola, agli insegnanti che giornalmente lavorano in “trincea” tra situazioni veramente difficili ed ai limiti della tolleranza.
LA CANZONE E LA SUA ERMENEUTICA DI CUI SOPRA
Nello specifico ad essere preso di mira nel brano Ottocento è il popolo borghese, quello benpensante a cui sempre De André si era opposto. Vengono presi di mira i suoi credi, le idee e i modi di fare tipici. Per De André ovviamente i borghesi opprimono i più deboli con i loro atteggiamenti superbi e le loro convinzioni, basate troppo spesso sul pensiero comune che tende ad escludere dalla società i diversi e tutti quelli che non seguono le leggi del branco.
De André li paragona alla nobiltà, ma non alla nobiltà del cinquecento, ricca e potente, ma a quella dell’ottocento povera e decaduta ma ancora troppo legata ai suoi canoni centenari, quelli che l’avevano resa potente ma che allo stesso tempo l’avevano indebolita, incapaci per ottusità di dare spazio al nuovo che entrava, l’allora borghesia.
Proprio quella stessa borghesia che De André deride in Ottocento, quella borghesia che, dimenticando i soprusi di cui era stata vittima, non disdegnava di farne di nuovi al nuovo che avanzava, i sessantottini, i rivoluzionari che aveva soppresso con la forza pur di mantenere vivi i propri privilegi.
E De André è durissimo già dall’inizio, con quel “Cantami” che tanto ricorda i poemi epici e che rappresenta senza mezzi termini il vecchio, e quindi i valori ormai antichi che non si adattano più alla società moderna(“che non vuol sentir l’odore di questo motor”). E nel brano si alternano scene poco chiare ma davvero inquietanti.
Un figlio modello, una figlia da dare in sposa ed una moglie “esperta di anticaglie” rendono il marito felice. Ma un evento distrugge i suoi sogni, il figlio si perde “nel naviglio”, vittima senza dubbio della droga: “Quale intruglio ti ha perduto nel naviglio?”