Accadde ad Eboli e Teano

Accadde ad Eboli e Teano

Dott. Carmine Paternostro

Nella più estrema regione d’Italia, distesa tra ai mari, ove terremoti hanno destato dal sonno e agitato il mitico Ulisse tra Scilla e Cariddi, sembra che Cristo non si sia spinto. Si è fermato ad Eboli per un breve ristoro ed affrettarsi al Nord. L’uomo si è affidato al dono della ricchezza, di un eternità terrena impossibile, spesso dimentico della sacra Parola. Ed anche il callido Virus penetrante ed infido del celebre Covid ha preferito quelle contrade.

Trascorso il tempo delle ridenti Fiat 600, quando la lira robusta prometteva benessere, ci accontentiamo quaggiù di un mezzo a due ruote, che promette salute, stile di vita e offerta d’asparagi, punte d’ortica, emergenti dai muti sentieri delle nostre colline. Anche in paese suona il silenzio. Strade deserte, senza una voce, il pianto di un bimbo, il chiasso dei fanciulli di un tempo, gioioso su piazze, vicoli e strade. Viviamo un’atmosfera diventata consueta, dopo il risveglio degli anni 60. La gioventù più valente trova attestati di merito al Nord o ancor più all’estero. Langue la storia del Sud. Sporadici raggi di sole penetrano nel grigiore di un’atavica questione meridionale, mai evidenziata sui testi di storia.

L’oscuro destino delle Calabrie, Apulie e Trinacria a salire fu disegnato da Josè il nizzardo, Camillo il vignaiolo ed il reale, di lingua francese, incredulo di fronte al gradito e inatteso regalo di un Regno. L’antonelliano sovrano scese addirittura a Teano per rientrare frettolosamente dall’amata Rosita e dagli impazienti inglesi e francesi, che reclamavano prestiti antichi. Il bilancio fu cicatrizzato dalla moneta di Napoli e delle 2 Sicilie, sequestrata al cugino di Napoli, ovviamente tradito e senza una dichiarazione di guerra!

E ci siamo adattati anche a quel nuovo stile di vita, brutalmente imposto, popolando, da bimbi sfrenati, le strade, ignorando la polio, le tante influenze, mali malarici, talora eventi tubercolari e, da grandi, amanti di vita, all’asprezza di un faticoso lavoro. Abbiamo coniugato e mai trascurato gli antichi valori della famiglia e la tradizionale religiosità profonda. Strenui guerrieri, sosteniamo tuttora una lotta continua tra forze diverse, contrapposte: la centrifuga, anti gravitaria che ci strappa a terra e famiglia per orizzonti diversi e la centripeta, che attira e ci lega alla terra natia, in attesa di una lontana e sperata rinascita. Un’oscura ispirazione gravitaria contagiò anche Levi, il celebre collega, confidenzialmente Carlo, che, da “costretto”, fu attratto dalla semplicità di rocce e caverne delle Murge lucane, smarrì l’orologio del tempo e lasciò le sue spoglie alla nostra custodia.

Le cose che contano spesso non si contano e quelle che non contano spesso si contano”, qualcosa di simile diceva Albert, celebre compagno di scuola, che fermò il tempo, piegò lo spazio, mutando la forza gravitazionale in un ballo vorticoso di spin. Concetti apparentemente difficili, che astraggono dalla realtà…particella di Higgs o addirittura di Dio!

Ma il francese non conosceva il teatro San Carlo, la Scuola Medica Salernitana, l’Università federiciana e figuriamoci se poteva sapere di Virgilio Marone, dal “Mantua me genuit, Calabri rapuere, Partenope nunc me tenet”. Chissà, se avesse conosciuto a posteriori l’arte medica di un Giuseppe Moscati, il Giovan Battista Vico, un Peppino di Capri, Totò, Eduardo, il gelato napoletano, gradito da Giacomino il Leopardi, per non dimenticare la musica dei Caruso, la celebre Pizza vesuviana e l’eroe Salvo D’Acquisto ritengo che avrebbe privilegiato la lingua napoletana, convertendosi al benessere di alta e verace cultura. Dico cultura di gente definita barbara, dall’indole ribelle e delinquenziale (che genio il Lombroso…).

E nell’astrazione del deserto irreale attuale, ostaggi di un virus, pedalando sulle gobbe collinari e montane di queste contrade, ci abbandoniamo al passato, per guadagnare il sorriso.

Man mano, salendo, ai margini della strada noto un raro soffio di neve primaverile. Nasce il rimpianto delle nevicate frequenti, delle tante distese di neve, che ovattavano ogni contrada. “Sotto la neve pane” insegnava mia madre. E noi, bambini vivaci, affondavamo nella coltre bianca nevosa, peregrinando alla ricerca dei “candelieri” (“i cannileri”). Erano lunghi fili di acqua ghiacciata, pendenti da ponti, balconi, finestre, che, spezzavamo per…gustare…acqua gelata. Le mani fredde e rossicce erano riscaldate dal ghiaccio o dalle palle di neve. A sera, si ritornava stremati e felici per esserci sottratti a un giorno di scuola e aver goduto una giornata diversa. Ci raccoglievamo lungo un braciere a carbone o un caminetto accogliente, sperando nella nevicata del giorno seguente.

E scopro tuttora l’antico tepore di un caminetto accogliente, infiammato da pezzi di cerri o di quercia delle nostre montagne, con l’antica pignata cretacea a bollire fagioli. Affretta lo scorrere di giornate uggiose e piovose, ormai private di neve. E’ il conforto, la tradizione, il calore delle regioni più povere negli interminabili inverni.

Nei giorni di sole, sulle colline scorrono vecchie memorie: i colori di una natura invitante, nel silenzio, ai soffi di foglie nascenti di una primavera incipiente, la bontà di amicizie e sorrisi sinceri svaniti nella fretta del tempo e il dono di ogni giorno che nasce. I ricordi sono sogni improvvisi, che si destano in memorie finite. Diventano fatue illusioni, simili a un cesto, ripieno dei mille colori di frutta. Ci appressiamo per consumarne qualcuna. Dov’è? E’ un ridente frutto di plastica! Resta l’acquolina in bocca, ma va bene anche così: memoria di un sapore diverso, di una vita trascorsa.

Ci resta il vivere d’oggi.  E’ tempo di virus. Questo Covid ha fermato il tempo, ha reso gli uomini più socievoli e miti, li ha indotti a rispettare il creato ed a passeggiare in un Eden riconquistato, in un pezzo di vita, cui, noi, gente rozza e plebea, eravamo da tempo educati.