L’arte del gioco

Gennaro Tedesco

Cristianesimo e idee rivoluzionarie che propugna

quali il perdono, la pace e la carità verso il prossimo

 Nel V secolo d.c. Agostino D’Ippona sancisce  filosoficamente la novità rivoluzionaria del Cristianesimo nella società greco-romana ormai al termine: l’opposizione irriducibile della “Città di Dio” al sistema politico-sociale instaurato da Roma.

I principi del Cristianesimo sono antitetici all’impero romano che diviene strumento del Diavolo nel momento in cui crede di poter condurre gli uomini alla perfezione in quella stessa società romana pervasa dal vizio e dalla caducità del tempo.

La perfezione, come qualsiasi altra possibilità di elevazione umana per Agostino non risiede nei confini, per quanto immensi, dell’Impero temporale di Roma, ma in quelli dell’Impero atemporale di Dio.

L’ascesa del cristianesimo dal principato di Augusto al IV sec. d. c. veniva a porsi nei secoli critici dell’Impero Romano. Il tentativo di Augusto di riportare i contadini italici al lavoro dei campi era destinato al fallimento. L’avanzata del latifondo e la conseguente massiccia  introduzione di schiavi emargina ed impoverisce i piccoli proprietari contadini dell’Impero. L’inasprimento fiscale dà il colpo di grazia al sistema socio-economico dell’Impero romano. Il cittadino romano non si sente più partecipe dello Stato, non ha più interesse a difendere uno stato che calpesta ogni suo diritto più elementare. In questa situazione è facile ai barbari dilagare nei territori romani.

L’impotenza di fronte a questi fenomeni di disgregazione riconduce ad uno smarrimento della propria identità: è naturale che i valori rappresentati dall’Impero non riescono più a soddisfare il cittadino romano che entra in crisi non solo politicamente ma anche e soprattutto esistenzialmente. La crisi esistenziale del cittadino si salda poi con quella molto più ricca di contenuti sociali e politici di tutti gli emarginati del sistema romano che sono sempre più numerosi, che sono soprattutto rappresentati dagli schiavi.

Il Cristianesimo offre uno sbocco a questa insostenibile e lacerante situazione esistenziale. Soprattutto i più emarginati, gli schiavi ,scorgono nel messaggio di    fratellanza e uguaglianza del nuovo credo religioso la possibilità di riscattarsi dalle catene sociali della subordinazione assoluta al potere imperiale romano.

L religione cristiana offre ad essi uno strumento  ideologico di sollevazione rivoluzionaria contro un sistema economico-sociale per essi oppressivo. E’ probabile che in questa ottica vanno viste le ribellioni servili dei primi secoli dopo Cristo. La ribellione di Spartaco potrebbe assumere, in un certo senso, i toni di una rivoluzione sociale che trova senz’altro le sue radici  nel Cristianesimo. L’egualitarismo comunistico cristiano delle origini è radicale nella sua opposizione globale al sistema romano, a qualunque potere costituito.

Ma contemporaneamente all’interno del movimento cristiano non solo si consolida una gerarchia ecclesiastica, ma si verifica anche l’inserimento degli strati sociali dominanti dell’Impero rendendoli partecipi del potere. Eusebio di Cesarea, cristiano, fornisce strumenti dottrinali tali da rendere l’Imperatore, prima tanto odiato, il rappresentante di Dio sulla terra, a cui tutti i cristiani debbono assoluta obbedienza.

Il processo di ascesa e trasformazione del Cristianesimo si è concluso: dal rifiuto radicale della società romana e dei suoi valori e dalla proiezione degli interessi umani al di là nel mondo terreno all’accettazione e all’inserimento nel mondo greco-romano che si cerca di cristianizzare.La gerarchia ecclesiastica e i valori cristiani alla caduta dell’impero romano d’Occidente diventano le uniche fondamenta della società, sono anzi la nuova società.

L’uomo medioevale pone al centro dei propri interessi non più la propria capacità di intervenire a modificare il corso degli eventi umani, ma sembra esclusivamente immerso nel problema di non sconvolgere l’ordine divino ed immutabile del mondo fatta a somiglianza di quell’altro ben più importante.

Guida spirituale e, in parte notevole, materiale del medioevale nel suo percorso mondano è la chiesa che diviene anche depositaria esclusiva dei nuovi valori cristiani: la fratellanza e l’uguaglianza tra gli uomini permangono, ma saranno relegate al ruolo di ideologia.

Ma quale è la discriminazione determinante dal punto di vista mentale tra classicità greco-romana e Cristianesimo? Quale il fattore che ha reso inaccessibile e distante la mentalità greco-romana alla maggioranza dei cristiani?

L’obbiettivo essenziale dell’educazione classica e pagana era il raggiungimento di una asettica razionalità che escludeva qualsiasi intervento irrazionale, passionale, o comunque arazionale. Nel campo sociale la giustizia umana equivaleva a un perfetto ragionamento astratto che consequenzialmente non ammetteva deroghe illogiche.

Questa concezione della giustizia sociale in senso astrattamente razionalistico venne a scontrarsi con un Cristianesimo che poneva al centro dell’educazione fattori non razionali quali il perdono, la pace, la carità, che erano la negazione dell’educazione greco-romana. La logica pedagogica del sistema sociale classico veniva scardinata: gli atti di prevaricazione del nemico non dovevano essere più razionalmente e freddamente ripagati con la stessa moneta. Ai nemici bisognava perdonare, e a qualunque condizione ricercare la pace anche quando la ragione imponeva la guerra.

Ma la “scoperta” rivoluzionaria del Cristianesimo è stata quella di aver tratto fuori dallo status di-cosa-lo schiavo, di avergli dato lo status di ‘persona’ come qualunque altra.

Questo, e non altro, è stato lo scandalo dei tempi. La-cosa-diviene uomo. Il Cristianesimo non è riuscito subito ad eliminare la schiavitù, ma certamente ha contribuito notevolmente allo spirito di carità e di umanità nei confronti di tutti gli esseri umani. Se nell’età tardo-antica e nel medio evo assisteremo in Europa occidentale alla graduale estinzione della schiavitù, questo è senz’altro merito del Cristianesimo.

Dunque la novità fondamentale introdotta dal Cristianesimo nel sistema greco-romano è –l’umanizzazione-di tale sistema sociale.

L’introduzione di principi più umani ha reso meno gravosa la vita a gran parte delle classi subalterne del Medioevo: non è stata una rivoluzione sociale, ma il Cristianesimo alle origini e dal punto di vista degli obbiettivi è sempre stato asociale, ma un passo avanti, pur con i suoi limiti, nel progresso dell’umanità.

 

CAPITOLO I

Cavalleria. Sua origine e funzione educativa

 

            Tra il IX e l’XI assistiamo alla nascita dell’ordine dei cavalieri. Essi in origine sono dei vassalli del signore medioevale che, in cambio del loro servizio armato, ricevono dei feudi, terre di cui divengono a loro volta signori. Si distinguono, inoltre, dal resto della popolazione perché sono gli unici a portare armi e a sapersene servire. La fame di terre li induce ad una continua espansione territoriale: ad esempio i Cavalieri teutonici conquisteranno agli Slavi parte notevole delle loro terre proprio perché spinti dalla necessità di trovare altri feudi che nella loro patria non trovavano più.

Gli stessi Normanni calano in Italia e la invadono per gli stessi motivi.

Dal X all’XI secolo i cavalieri vivono senza freni la loro vita irregolare.

Ma col progredire dell’XI secolo la Chiesa comincia a intervenire per regolari tali abitudini poco sociali dei cavalieri. La Chiesa istituisce le “pubbliche paci”, volte a temperare gli eccessi di violenza dei cavalieri. A fianco dell’azione regolatrice della Chiesa, si impose la risorgente autorità dello Stato. Questi cavalieri che nel X secolo erano stati così poco mansueti, diventeranno custodi implacabili di giustizia e di pace. La Chiesa, sostenuta dallo Stato, ne indirizzava a un nuovo e superiore fine le energie, educando i cavalieri nel rispetto della fede cristiana.

I primi doveri della nuova morale cavalleresca ispirata dalla Chiesa erano la difesa e la protezione delle Chiese, delle vedove, degli orfani e di tutti coloro i quali erano servi di Dio.

La cavalleria viene a costituirsi come un corpo con funzioni determinate e ideali cristiani reclutato nella classe dei nobili, che si sente unito da vincoli morali e religiosi che non tengono conto delle nozioni di razza o di nazioni, concetto del resto che nel Medioevo non esisteva. Essa quindi può essere considerata a pieno titolo una vera e propria organizzazione sopranazionale.

Anteriormente alla diffusione delle università e delle scuole comunali e private, l’educazione cavalleresca è l’unica educazione laica del Medioevo: essa è militare, secolare e religiosa.

Dovere del cavaliere è la dedizione assoluta a Dio, al re, alla dama e al suo onore.

L’influenza della Chiesa fa in modo che il ragazzo si abitui a difendere, sin dalla tenera età, la fede, i deboli e gli oppressi, a fare della donna oggetto di culto, idealizzandola, consacrando a lei pensieri e azioni elevate e sublimi. L’abilità guerriera, il coraggio e la ricerca delle avventure rischiose sono finalizzate al culto della donna idealizzata dalla coscienza di essere cavalieri di Cristo e della sua Chiesa. L’influenza moderatrice della Chiesa sui cavalieri e sulla loro educazione consente alla donna di uscire dal suo isolamento, essa disciplina e ammorbidisce la primitiva rozzezza dei cavalieri, la loro ferocia guerriera col sentimento della gentilezza femminile e con la gioia della sottomissione estatica alla donna. Dunque determinanti per il cavaliere diventano la cortesia, l’onore, due termini che sostanzialmente stanno ad  indicare lo stesso significato. Della cortesia parleremo alla fine del nostro lavoro.

Il futuro cavaliere è sotto tutela della madre e delle nutrici fino ai 7 anni di età. I suoi giochi non erano molto diversi dai nostri. Accanto a quelli di abilità come il tric-trac e gli scacchi, predominanti sono i giochi fisici: l’altalena, i trampoli, le racchette e il volano, le bocce, la palla, la pallacorda, la trottola, la corsa, la lotta, la barriera, la giostra, la finta guerra.

Soprattutto il bambino si esercita precocemente a cavalcare. Dopo i 7 anni comincia l’educazione vera e propria. L’aspirante al titolo di cavaliere deve indurirsi e allo stesso tempo dare al proprio corpo agilità e destrezza, poi abituarsi a servire.

Il primo periodo del tirocinio del cavaliere va dai 7 ai 14 anni, in questo periodo egli ha il grado di paggio. Il secondo periodo va dai 14 ai 21 anni ed ha il grado di scudiere. Fino ai 12 anni  l’educazione è domestica, poi il ragazzo è inviato verso i 12 anni a fare il tirocinio in un castello feudale o alla corte del re. Al castello o alla corte del re il giovane impara la difficile arte del servire. Per divenire praticamente esperto delle armi, della vita e delle missioni di cavaliere.

Nel castello o alla corte egli è educato, è mantenuto, è apprendista e servo, attende alle armi e al cavallo del nobile ed ai suoi ospiti, non solo segue il nobile dappertutto portandogli lo scudo, ma provvede anche ai tanti servizi tipici della vita in castello e continua senza posa a svolgere gli esercizi fisici preparatori alla guerra.

L’educazione cavalleresca ha obbiettivi pratici, è un vero e proprio tirocinio finalizzato all’acquisizione di abilità e abitudini determinate.

L’etica cavalleresca trova la sua naturale estensione nei tornei, tratto distintivo dell’intera classe dei cavalieri.

 

 

CAPITOLO II

Giochi equestri: torneo, la giostra, la, quintana, il carosello e la gualdana, tiro con l’arco, la balestra, la fionda, il giavellotto,la scherma, il tiro alla corda

 

Quando si afferma che il Medioevo è l’età della mortificazione della carne, si esagera; anche se questa svalutazione della carne esiste, nondimeno parallelamente esiste un notevole interesse per le attività fisiche.

I tornei, i giochi equestri per eccellenza della cavalleria, la giostra, la quintana, la gualdana, le corse all’anello rappresentano gli svaghi di un’intera classe sociale, quella dei cavalieri, che, attraverso essi, si distanziano socialmente dalle classi subalterne del Medioevo.

La noia della vita tranquilla nel castello veniva interrotta dai tornei a cui i cavalieri partecipavano volentieri, ma i motivi di partecipazioni e a queste adunanze medioevali erano anche altri: la necessità di tenere in allenamento il fisico e tenersi costantemente preparati per una eventuale guerra, il bisogno di possedere una certa destrezza utile in un mondo come quello feudale pieno di pericoli e tranelli improvvisi.

Non mancavano i morti e i feriti in questi ”incontri” tra cavalieri.

Perciò non solo i sovrani tentarono vanamente di limitare il numero dei tornei, ma anche la Chiesa intervenne rifiutando la sepoltura in terra consacrata al cavaliere, anche se in punto di morte si pentiva. Vale la pena di descrivere alcuni di questi giochi medioevali.

Il torneo è la più tipica espressione della cavalleria feudale.

Consisteva  nel tentativo di due opposte formazioni di cavalieri, ognuna delle quali cercava di colpire l’altra per conquistare lo spazio racchiuso in un ampio steccato circolare.

Ceoffrey di Previlly fissò le regole del torneo. Sia l’azione della Chiesa sia il progresso della mentalità civile influirono sullo svolgimento dei tornei che da scontri violenti e sanguinari si trasformarono con l’uso di armi spuntate e coperte in giostre da cui i trovatori trassero spunto per la loro poesia straripante di echi cavallereschi.

Il torneo era bandito da un re o da un signore per mezzo di araldi; si svolgeva secondo un preciso cerimoniale; era preceduto dalla messa propiziatoria e da cortei; era seguito da feste. I vincitori ricevevano un premio e una onorificenza, i vinti perdevano le armi. Dopo la morte del re di Francia Enrico II (Parigi, 1559) avvenuta in un torneo, il combattimento fu sostituito da figure coreografiche, da esercizi di abilità con le armi eseguite a cavallo. I caroselli sostituirono così i tornei, in Francia e in tutta l’Europa.

La giostra consisteva nel combattimento tra due cavalieri armati di lancia che si fronteggiavano per disarcionarsi reciprocamente. Sia i tornei che le giostre erano seguiti appassionatamente dal pubblico che non mancava di esternare calorosamente il suo entusiasmo. L’ambito premio del torneo e della giostra veniva offerto dalla dama.

Intermedio tra la giostra e il torneo, era un gioco in cui i cavalieri dovevano conquistare un passo strenuamente difeso da altri cavalieri.

Invece del passo vero e proprio si poteva trattare anche dell’attacco ad un ponte, all’entrata di un castello, ad una posizione fortificata. Era possibile cambiare continuamente i luoghi da difendere, le armi, le condizioni del combattimento. Dalla storia e dai romanzi venivano presi degli episodi che venivano poi imitati dai cavalieri nell’esecuzione dei loro giochi.

La quintana, altro gioco molto apprezzato dai cavalieri, consisteva in una corsa di cavalieri armati di lancia che dovevano colpire una “quintana” un fantoccio di legno, che simboleggiava l’infedele.

Se il cavaliere non centrava il bersaglio, la quintana, girando vorticosamente, colpiva il cavaliere, disarcionandolo. La quintana è praticata ancor oggi a Foligno e nella Giostra del saracino di Arezzo e di Asti.

La gualdana era caratterizzata per il fatto che i partecipanti a questa gara, che consisteva in finti combattimenti, in schermaglie di guerra, andavano in giro per chiamare a raccolta principi  e nobili. La gualdana in origine era una formazione militare armata temuta per le sue scorrerie a cavallo in territorio nemico.

La corsa all’anello sostituiva un gioco di particolare destrezza e abilità.

Il cavaliere, attraverso un terreno circolare, doveva infilare in corsa il maggior numero possibile di anelli a dei pali.

Un capitolo a parte in questa breve rassegna dedicata agli svaghi della cavalleria spetterebbe alla caccia, che era poi uno di quei “ giochi” più esclusivi dell’ordine dei nobili cavalieri medioevali: probabilmente all’inizio praticata da essi senza una chiara consapevolezza del suo status aristocratico e “separatistico”, in seguito emersa a simbolo di superiorità classista rispetto alle altri classi sociali.

La caccia divenne la forma più sofisticata di divertimento dei cavalieri: essa veniva praticata con l’ausilio di archi e frecce, mentre la preda era costituita da cinghiali, bisonti,cervi. La caccia con i cani, col leopardo e col falco fu intensamente e piacevolmente esercitata dalla cavalleria. Soprattutto dilagò l’uso del falco nell’attività venatoria feudale, tanto che troviamo numerosi trattati su questo tipo di caccia.

Altri giochi non meno interessanti e importanti nel Medioevo furono quelli che i cavalieri ebbero in comune con il popolo: il tiro con l’arco, la balestra, la fionda, il giavellotto, la scherma, la lotta.

La lotta era una gara agonistica di origine greco-romana, un combattimento a corpo a corpo tra due contendenti senza armi in cui giocava un ruolo assoluto la forza fisica, pressione e allacciamento reciproco del corpo.

Nel Medioevo la lotta decadde, pur continuando ad essere praticata soprattutto come una forma di preparazione militare dagli uomini d’armi e dai nobili. Non mancarono in ogni Paese forme particolari di lotta, tutte varianti più o meno violente e pittoresche dell’odierna lotta libera: fra le più note sono da ricordare la lotta svizzera, in cui i contendenti indossano pantaloni di stoffa robusta o di cuoio e afferrandosi alla cintura cercano di atterrarsi senza esclusione di colpi, la lotta bretone analoga alla precedente; la lotta turca, in cui i contendenti indossano soltanto lunghi calzoni di cuoio e si spalmano abbondantemente l’olio per rendere più difficili le prese; la lotta islandese o glima, in cui gli atleti si afferrano con  la destra alla cintura e con la sinistra o a una coscia o ai pantaloni e tentano di squilibrarsi e atterrarsi.

La fionda fu soprattutto uno strumento militare di offesa già noto nell’antichità, che nel Medioevo ebbe una notevole espansione.

Il lancio del giavellotto non fu meno praticato come sport, ma ancor più diffuso fu il suo uso come arma offensiva.

Il tiro con l’arco e la balestra ebbero notevole diffusione per la loro facilità d’uso: le gare di tiro furono entusiasticamente affollate sia dai cavalieri che dal popolo.

Molto popolari furono anche i vari tipi di salto in lungo, in alto e quello al muro.

Di una vera e propria scherma o meglio arte della scherma non si può parlare per il Medioevo, perché l’arma da taglio rimane fondamentalmente strumento di difesa e di offesa.

La spada, arma dei crociati, assurse a valore di simbolo sacro, in segno di nobiltà e di coraggio: per questo si deponeva una spada sulla sepoltura dei cavalieri.

Col tempo la scherma affinò e ingentilì le proprie tecniche, diventando sempre più esercizio di finezza e di maestria; in essa eccelsero gli spadaccini italiani, continuando la gloriosa tradizione che le armi italiane si erano conquistate nella celebre disfida di Barletta. Notissimi maestri in questa arte furono gli italiani che la diffusero nel mondo.

Il bagardo era un combattimento che non implicava alcun pericolo, perché era una parata militare sfarzosissima in cui giocavano un ruolo predominante eleganza e destrezza. Si svolgeva in onore di un personaggio illustre o per attirare l’attenzione di una dama. Era piacevole e divertente, perché non comportava scontri cruenti.

Il tiost consisteva in una lotta regolare per mezzo di lance a cui avevano diritto di partecipare solo quei giovani cavalieri che avessero adempiuto all’obbligo della difesa della religione, della donna, dei poveri. Ma finiva col diventare un gioco molto pericoloso perché i contendenti non lesinavano l’impegno e gli spettatori col loro entusiasmo li spronavano a un sempre maggiore coinvolgimento passionale in tale gioco.

I giochi di palla del Medioevo hanno dato vita agli attuali foot-ball e rugby. Essi, all’inizio del Medioevo, erano molto semplici. Anzi rozzi e violenti. Si spingevano la palla fino a superare il limite del campo avversario oppure la palla era portata per un vasto territorio fino alla propria parrocchia e si giocava nelle strade della città incorrendo spesso in incidenti mortali.

La pelota ebbe origine in Spagna: l’attrezzatura necessaria per praticarla è costituita da un muro, in origine quello di una Chiesa, contro cui si ribatteva la palla.

CONCLUSIONI

 

La cavalleria si attenne ai principi ideali

 

proposti dalla Chiesa, pur restando in parte

 

legata alle proprie origini ed ai

 

motivi  laico-aristocratici

           

L’istituzione che riuscì a canalizzare gli istinti e gli interessi dei cavalieri fu la Chiesa che intervenne a legittimare ideologicamente, politicamente e giuridicamente la loro esistenza.

Dal punto di vista ideologico, l’ordine dei cavalieri viene assunto nella ripartizione triadica della società medioevale. I tre ordini fondamentali dell’assetto societario medioevale, i cavalieri, i contadini e gli ecclesiastici diventano istituzione non solo naturale, ma anche sacra, quindi inviolabile.

All’interno di questo naturale e ben regolato inquadramento, i villani sono sottoposti dei cavalieri, che sono i difensori dei contadini incapaci di difendersi da soli aventi l’unico obbligo di lavorare i campi, gli ecclesiastici, invece, sono addetti alla cura spirituale delle anime dei cavalieri e dei villani.

Da un punto di vista giuridico e politico i cavalieri diventano un ordine militare e politico costituito; quando essi cominciano ad essere insidiati dalla borghesia nascente, si trasformano in una casta chiusa: è l’inizio della fine.

La “vestizione” del cavaliere era una vera e propria cerimonia, in cui ben presto si inserì la Chiesa. L’aspirante al titolo di cavaliere era colpito da un rude colpo. La spada dell’aspirante veniva benedetta. Alcune preghiere accompagnavano e seguivano la disposizione della spada sull’altra. Se all’origine il compito di armare il nuovo cavaliere fu proprio del padre o di un signore, ben presto divenne privilegio esclusivo del potere ecclesiastico: l’appropriazione del rito di vestizione del cavaliere da parte della Chiesa contribuì a consolidare il convincimento che la cavalleria era una società di iniziati.

La sacralizzazione dell’ordine cavalleresco non solo rafforzò lo spirito di corpo, ma determinò anche gli ideali morali dell’ordine. I principi dell’etica cavalleresca di derivazione laica furono quelli più accettabili dalla coscienza religiosa medioevale: liberalità, ricerca della gloria, disprezzo del riposo, della sofferenza e della morte. In effetti, elementi profondi e sacri convissero nel bagaglio etico del cavaliere; tra gli obblighi c’era quello della messa quotidiana e del digiuno il venerdì. Le preghiere cristiane debbono servire all’accrescimento della potenza ed efficacia delle armi dei cavalieri. Se il cavaliere ha ancora il diritto di sguainare la spada consacrata contro i suoi nemici e quelli del suo signore, soprattutto ora deve usarla in difesa della Santa Chiesa contro gli infedeli, proteggendo la vedova, l’orfano e il povero. La sua lotta sarà incessante contro tutte le malvagità del mondo; ma soprattutto egli dovrà essere il paladino instancabile della Santa Fede.

Ma quali erano le caratteristiche principali personali, laiche del cavaliere? L’agilità e la forza fisica non disgiunte dal coraggio: naturalmente i casi di panico erano molti e frequenti. I motivi che potevano spingere un cavaliere sulla via dell’eroismo erano più vari: furore disperato di fronte alla morte, devozione a un ideale, ad un capo, amore della gloria, fatalismo, ricompensa spirituale dell’altro mondo per il suo coraggio indomito dimostrato al servizio di Dio. Non ultima motivazione era la noia che spingeva ai gesti eroici di guerra.

La vita del cavaliere, quando non era impegnato in attività belliche, era scandita dai ritmi placidi e regolari, per lui noiosi, di un’esistenza appartata nella propria residenza campestre, castello.

Nel XII secolo, i cavalieri giunti al culmine del loro sviluppo sociale, cristallizzano i loro valori politici nella letteratura; nasce il codice letterario cavalleresco.

La forza e il coraggio non sono più sufficienti a determinare il valore del cavaliere: egli, per essere fino in fondo tale, ha bisogno della “cortesia”, qualità esclusiva della sua classe. Per riuscire campione di cortesia, alla corte il cavaliere deve superare i propri rivali con la fama delle sue imprese, con la sua fedeltà alle buone usanze e anche con le doti letterarie. L’estrema raffinatezza di queste opere rendeva consapevoli i cavalieri della propria superiorità nei confronti dei villani spingendoli ad un’auto compiacimento che accentuava volutamente il distacco da una classe come quella dei contadini ritenuta inferiore.

BIBLIOGRAFIA

 

 

BLOCH MARC:       La società feudale, Einaudi, 1949

 

CIMARELLI:           Armi bianche, Edit. Rizzoli, 1969

 

WILKINSON:           Armi ed armature, Mondatori, 1972

 

JOVINO GIANLUIGI

            E

PIERDOMENICO: Compendio di Storia della Educazione Fisica, Roma, 1976

 

 

 

INDICE

 

 

INTRODUZIONE: Cristianesimo e idee rivoluzionarie che propugna quali il perdono, la pace e la carità verso il prossimo. Pag. 1

 

CAPITOLO I: Cavalleria, sua origine e funzione educativa. Pag. 3

 

CAPITOLO II: Giochi equestri: ”Torneo, la giostra, la quintana, il carosello e la gualdana, tiro con l’arco, la balestra, la fionda, il giavellotto, la scherma, la lotta, il tiro della corda.” Pag. 4

 

CONCLUSIONI: La cavalleria si attenne ai principi ideali proposti dalla Chiesa pur restando in parte legata alle proprie origini ed ai motivi laico-aristocratici. Pag . 7

 

BIBLIOGRAFIA                                                                                                                Pag. 9