Voto o plebiscito, l’all in renziano

Amedeo Tesauro

L’approvazione del ddl Boschi sulla riforma della Costituzione (361 sì e 7 no, le opposizioni non hanno partecipato) segna l’ultima tappa del percorso per il provvedimento chiave dell’esecutivo. Ora la parola passa ai cittadini, chiamati in autunno a una votazione sempre più personalizzata. Voto o plebiscito? Matteo Renzi ha caricato il quesito referendario di un valore superiore all’oggetto della votazione: o passa la riforma o va a casa. Subito è apparso chiara la personalizzazione del voto da parte del premier, il quale ha candidamente ammesso la possibilità che in molti votino contro di lui piuttosto che contro il ddl Boschi. Errore o convincente conferma della propria leadership, lo sapremo solo in autunno, ma che la mossa sia rischiosa è fuori discussione. Del resto Renzi, meglio riferirsi al premier piuttosto che all’esecutivo, arriverà all’appuntamento dopo una marcia che passa per due ulteriori occasioni elettorali, le amministrative di giugno e il prossimo referendum sulle trivelle del 17 aprile, dunque potrebbe presentarsi in autunno con due vittorie rafforza status o, viceversa, una o più sconfitte dal peso variabile. Praticamente giocarsi tutto sull’onda del successo o al contrario rischiare la resa dopo esser già inciampato al confronto con gli elettori. La personalizzazione del referendum di ottobre è tangibile oggi a mesi di distanza, allora raggiungerà livelli altissimi divenendo a tutti gli effetti un plebiscito, sì o no per il  capo del governo.  Ovviamente non è la prima volta che i referendum si trasformano in votazioni sul governo e il suo capo, qualcuno anzi avanza già i paragoni tra Bettino Craxi e il suo “andate al mare” (all’epoca si decideva sulla preferenza unica) con l’invito all’astensione per il voto del 17 aprile; allora fu l’inizio della fine per il leader del garofano, i non renziani sperano nella ciclicità della storia a partire dal prossimo week end. Con Craxi l’ex sindaco di Firenze ha senza dubbio in comune il decisionismo con cui si muove nello scacchiere politico, uno scacchiere di cui in breve tempo è diventato il re. Una sua uscita di scena, a soli 41 anni, difatti priverebbe il panorama italiano del primo attore, del protagonista assoluto, e chissà cosa ci sarebbe poi. La personalizzazione del voto era inevitabile, troppo dominante è stata la sua figura negli ultimi anni per impedire che il referendum su una riforma chiave potesse essere solo e soltanto un referendum. Certo, Renzi non era obbligato a mettere in palio la propria esistenza politica al voto, mentre logico sarebbe stato in ogni caso legare l’esperienza di governo alla riforma costituzionale. La manovra rischiosa, a osservarla attentamente, è un all-in pokeristico, ovvero tutte le chip sul piatto con la consapevolezza (o la speranza) che nessuno sia disposto a venire a vedere, a giocarsi altrettanto. Ma chi è che gioca? Le opposizioni hanno solo da guadagnarne, e tenteranno di mobilitare il proprio elettorato per abbattere il re della scena. No, la mossa pokeristica di Renzi è rivolta agli elettori, ai quali implicitamente è chiesto di mettere sul tavolo un’alternativa (di ogni genere) alla leadership renziana. Chi dopo di lui? Se Renzi esce dalla scena chi diventa il protagonista? Renzi si gioca tutto in un plebiscito sulla sua persona, ponendo un aut aut: o rimane lui al centro del sistema, oppure sparirà del tutto dal sistema, con conseguente sconquassamento degli equilibri esistenti. La sua scommessa è che gli elettori valutino la sua persona e il suo esecutivo come i migliori possibili per la guida del paese, diffidando dagli scenari che le opposizioni offrono. Una scommessa che forse sottovaluta l’umore che spesso accompagna chi è in carica, una rischiosissima mossa che se riuscita garantirebbe tuttavia all’enfant prodige Renzi di acquistare abbastanza credito da governare senza intoppi fino alla naturale fine della legislatura nel 2018.