Disoccupazione giovanile, tra dati ambigui e opportunità non sfruttate

Amedeo Tesauro

Al via sul territorio campano i primi laboratori del programma ministeriale “Crescere in digitale”, ennesima iniziativa per favorire l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani italiani. “Crescere in digitale”, ovvero 50 ore di formazione online sui temi della digitalizzazione e le trasformazioni che induce nelle piccole e medie imprese, infine un laboratorio e la possibilità di un tirocinio (3000 in tutta Italia). Obbiettivo dichiarato e mirato: smuovere quell’enorme popolazione di Neet (35%, record europeo), ovvero giovani disoccupati non impiegati in un percorso di studio né in uno di formazione, praticamente potenziale umano inespresso. Il problema è talmente grave da ergersi a vera piaga nazionale, un ulteriore squarcio di dura realtà da affiancare alle percentuali di disoccupazione giovanile, valori record soprattutto nel Sud Italia dove tra arretratezza e mancanza di opportunità sono sempre troppo pochi i giovani occupati. Eppure non bisogna confondere i dati di chi non è impegnato in nulla, e magari non cerca nemmeno di impegnarsi, e la disoccupazione giovanile, giacché di quest’ultima non si racconta tutta la verità. Un bel pezzo del Sole 24 Ore di qualche giorno fa offriva un punto di vista solitamente assente nei media, eppure ben noto tra chi in quei numeri ci si ritrova: la fascia d’età presa in considerazione è sbagliata. O quantomeno dice meno di quello che spesso si finisce col concludere. Quando si parla di disoccupazione giovanile si fa riferimento a una fascia d’età precisa, ovvero quella che va dai 15 ai 25 anni. Se è vero che le stime parlano di sempre meno iscrizioni all’università, valore in cui influisce anche una certa riscoperta del lavoro manuale dovuta alla crisi economica, stimare la disoccupazione a partire dai quindicenni è precoce: con l’obbligo scolastico a quell’età sono praticamente tutti impegnati negli studi, ed oggi è comune concludere anche la scuola superiore (il vecchio adagio per cui, una volta, con un diploma si lavorava e oggi no). E poi anche ammesso che di aspiranti laureati ve ne siano di meno rispetto a qualche anno fa, ciò non toglie che essi siano comunque un numero troppo elevato per liquidarlo come un fattore marginale. Detto in parole povere: troppi tra i 15 e i 24 anni sono impegnati negli studi. La vera disoccupazione inizia dopo, colpisce duramente dai venticinque anni in su, tra chi è fuoriuscito definitivamente dal sistema scolastico e non trova un’occupazione. Non a caso il governo ha varato Garanzia Giovani, programma di derivazione europea per iniziare al lavoro i giovani (fino ai 30 anni) disoccupati e non impegnati nello studio. Risultati modesti, si apprezza l’impegno non quello che produce, lo stesso ministro Poletti ha più volte parlato di migliorare e stabilizzare il programma, una risposta indiretta ai critici, ma anche una conferma che qualcosa non è andato come doveva. Il ministro ha anche affermato che “quasi un milione di giovani si sono registrati” alla Garanzia Giovani, senza però specificare quanti di questi hanno trovato lavoro. Da gennaio, invece, dovrebbe partire un programma specifico per garantire credito ai giovani, da cinquemila a cinquantamila euro, così da avviarsi all’imprenditoria. Programmi, progetti, cifre, per vincere una condizione da tempo drammatica.