Hanno vinto tutti: la retorica del post elezioni

Amedeo Tesauro

La tornata delle regionali lascerà ancora degli strascichi, manco a dirlo proprio in Campania, ma una cosa è certa: hanno vinto tutti. Le dichiarazioni post elettorali non lasciano adito ai dubbi, da un lato e dall’altro il bottino di voti raccolti è tanto ricco da proclamare vittoria: il PD fa 5 a 2, perde la Liguria ma conquista la Campania; la Lega vince in Veneto con Luca Zaia e in Liguria il candidato di coalizione Giovanni Toti è primo; Forza Italia riparte conquistando una regione e dove si presenta unito lascia intravedere possibilità di risalita; il Movimento 5 Stelle tiene dimostrando una presenza sul territorio non preventivata e allontana i risultati negative delle europee; la sinistra alternativa trova in Liguria le percentuali giuste per sperare in un progetto anche sul piano nazionale. In realtà, al di là della retorica trionfale che investe ogni partito, analisi più dettagliate lasciano aperti dei margini di discussione, a cominciare dal Partito Democratico. Chi governa, si sa, subisce un contraccolpo elettorale, le cinque regioni vinte sono un dato di fatto ma allo stesso modo lo è un consenso non più così netto come un anno fa. Non è un voto sul governo si diceva in casa PD prima del voto, tuttavia pare troppo furbo aver governato un anno sull’onda del 41% delle elezioni europee e minimizzare un calo di preferenze in occasioni delle regionali, come a dire che il voto è test sul governo solo quando fa comodo. Tanto più che a perdere è il PD renziano, con le sconfitte di Raffella Paita in Liguria e il flop di Alessandra Moretti in Veneto, mentre vincono i modelli personali di Vincenzo De Luca in Campania e Michele Emiliano in Puglia, cioè un PD “altro” che col premier intrattiene solo rapporti d’ufficio. Senza contare poi il colpo basso sferrato dai movimenti a sinistra del partito, con il boom di Luca Pastorino in quella Liguria che finisce nelle mani della destra. La sinistra si presenta spaccata e perde, innescando mille polemiche sulla natura del Partito Democratico come forza di sinistra, mentre invece la candidatura di Giovanni Toti unisce il fronte di centrodestra che da lì punta a ripartire. Ma anche a destra vi è da discutere, malgrado le speranze di risalita Forza Italia è di gran lunga il partito che meno può rivendicare un successo elettorale, soprattutto perché ora fa da minoranza in coalizione. Le liste del Carroccio sono andate meglio ovunque, ora è Matteo Salvini a guidare, concretizzando un rilancio della Lega Nord che solo tre anni fa pareva follia. Nuove gerarchie dunque, come nuove sono le dinamiche che coinvolgono il Movimento 5 Stelle, che se non vince nulla ottiene però una conferma di stabilità che quasi nessuno pronosticava. Soprattutto, però, vanta risultati elettorali raggiunti senza la presenza invasiva di Beppe Grillo, il quale per la prima volta non si è speso in maniera plateale per i suoi candidati, e i risultati hanno pagato: Grillo sta zitto e il 5 Stelle risale nelle preferenze. Ciò che sta avvenendo nel Movimento è interessante, il farsi da parte del fondatore/leader/testimonial potrebbe segnare il passaggio necessario per fare il salto di qualità. Anche in casa 5 Stelle, dunque, si è vinto, hanno vinto tutti del resto. Eppure nella retorica post-elettorale scompare, o quantomeno viene intelligentemente occultato, il dato dell’astensione per il quale un elettore su due non ha votato. Le discussioni sull’astensionismo sono le solite, dal “chi non va votare ha torto” alla legittimità del non voto fino a chi ritiene l’astensionismo indice di una democrazia matura (meglio il non voto o il voto d’appartenenza come ai tempi della Prima Repubblica?). Fatto sta che nella retorica del giorno dopo il dato scompare, perché se fosse messo al centro del dibattito allora non avrebbero vinto tutti, ma al contrario si rischierebbe il paradosso: non ha vinto nessuno.