Campania Verde, il Cilento: può cambiare?

Giuseppe Lembo

È tempo di riportare un po’ di ordine nel disordine crescente che governa sgovernando il Parco Nazionale del Cilento – Vallo di Diano, un’area verde campana dalle vaste dimensioni che veniva istituita con la legge 394/91, che dava finalmente all’Italia una rete di Parchi Nazionali, a protezione integrale dell’ambiente da conservare e da consegnare sano ai propri figli ed ai propri nipoti. Il 1991, pur essendo un tempo di un altro secolo e di un altro millennio è proprio ad un tiro di schioppo da noi; è proprio poco, temporalmente, lontano da noi. In quegli anni l’entusiasmo cilentano per il nascente Parco era alle stelle. Tante le attese, tante le speranze della popolazione che pensava di avere finalmente raggiunto la via del riscatto umano e sociale, con il tanto atteso sviluppo socio-economico, tra l’altro, in un contesto naturale protetto di territori restituiti alla vivibilità dell’uomo, dal sudato lavoro contadino che da più generazioni aveva terrazzato, piantumato e reso produttivo aree marginali, grazie ad un’ostinata volontà del fare, tra l’altro, dovuta ad esigenze di sopravvivenza per non morire e/o per non andare a cercarsi pane e lavoro altrove. Questo miracolo del Cilento verde con aggregato il Vallo di Diano e gli Alburni ha avuto, prima di tutto, per protagonisti silenziosi, i contadini; il saggio mondo contadino che, grazie al sudore della fronte, sapeva garantire ai propri figli il pane della sopravvivenza; tanto, coltivando territori non facili, dove con amore si terrazzava, si seminava e si piantava, soprattutto olivi, con il saggio intento che, il buon e salutare olio, l’oro verde del Cilento, era principalmente a beneficio dei propri figli ed ancor più dei propri nipoti che ricevevano le terre da custodire, per poi trasferirle, così come ricevute, agli altri, delle nuove generazioni, per continuarle a coltivare, ad usare nel rispetto della natura e così trasferirle ad altri ancora, per coltivarle e così produrre, il pane della vita.

Dal passato sacralmente rispettoso dei territori siamo oggi, purtroppo, nella insipienza più assoluta; si fa dei territori, anche in aree protette, come quelle del Parco Nazionale del Cilento – Vallo di Diano, delle realtà sempre più amare e sempre più ammalate di “uomo” ad un punto tale da vederne crescere l’uso-abusato, il degrado, l’ostinata volontà, soprattutto nelle aree costiere di sottrarle sempre più, alla loro destinazione naturale di paesaggio da conservare e di terre agricole da coltivare.

Tanto, in un caos che si ostina a fare male, creando crescenti problemi al buon vivere che, cammin facendo, è diventato orfano della bellezza, un valore antico che qui nasceva spontaneamente ed in assoluta naturalezza di comportamento, come espressione di una volontà comune di cui i contadini si sentivano responsabilmente eredi-custodi, attenti a rispettare tutto quello che andava rispettato per poi trasferirlo ai figli ed ai nipoti, eredi naturali di un ricco patrimonio comune.

Un patrimonio, quello del Cilento, fatto ancora oggi anche se non mancano i segni delle sue tante sofferenze, di un paesaggio che non teme confronti, di un ambiente antropico da vivere e di tanta, tanta salubrità del cibo, dell’aria e delle sue fresche e dolci acque di falde, un tempo assolutamente prive di quegli inquinanti che oggi, purtroppo e sempre più, ammorbano il suolo, avvelenandolo e producendone mutazioni in tutte le sue parti. Dal paesaggio che non è più quello “bello” di una volta, ai prodotti della terra, non più quelli “sani” e “saporiti”, così come ai tempi di un passato, per altro, non tanto lontano, un passato che il Cilento non può assolutamente dimenticare, perché è parte di quella ricchezza e di quel fascino, mancando i quali, c’è il solo decadimento; c’è il solo oscurantismo già vissuto in altri tempi; c’è la sola continuità di un fare turismo con i soli villeggianti che, invadendo i territori, hanno creato inopportuni affollamenti e criticità crescenti ai servizi territoriali, per altro, non attrezzati a subire pesi antropici così eccessivi.

In questa cornice che ha in sé tanti punti oscuri, bisogna tornare ad essere umanamente attenti per continuare a costruire un percorso virtuoso dell’uomo cilentano con il proprio territorio.

Purtroppo, i tempi del cambiamento epocale e di una crescente e diffusa globalizzazione dell’indifferenza, anche qui nel Cilento, anche nella terra di Parmenide dove è nato il pensiero dell’essere, ci sono stati i gravi danni di una vera e propria mutazione genetica che ha compromesso il DNA del buon vivere, compreso quello del mangiare sano con prodotti naturali della Terra, biologicamente coltivata; tanto, per votarsi all’apparire, alla materialità delle cose terrene, mettendo, tra l’altro, a tavola prodotti di un mangiare globale, sempre meno territoriali, sempre meno rispettosi della salute, in quanto prodotti avvelenati da un sistema di coltivazione poco o per niente naturale.

E così la nostra Terra, la buona Terra della dieta mediterranea si vede attraversata da sofferenze antropico-sociali e non ultime naturalistiche da fermare ed al più presto, se si vuole evitare al Cilento una crisi senza ritorno e con danni che pagheranno a caro prezzo soprattutto quelli che verranno, ricevendo non quella sacra eredità di sempre con il trasferimento da una generazione all’altra di quello che si riceveva in uso, ben conservandolo, per trasferirlo integro ai figli ed ai nipoti.

Questo momento magico ormai è scomparso; anche nel Cilento i cambiamenti umani hanno negativamente risentito di comportamenti umani falsamente intesi, con un fare di facciata negativamente globale ed altrettanto negativamente dannoso all’essere ed ai valori dell’essere idiotamente violentati da un apparire e dai simboli di una invadente materialità dell’apparire, che sono considerati ovunque nel mondo, le uniche certezze del mondo; le certezze care ai più e di cui l’uomo nella sua sfrenata corsa al consumismo, è convinto che non può assolutamente farne a meno; così facendo rincorre i simboli di un non essere che provocheranno un giorno e sempre più danni gravissimi all’uomo della Terra, non permettendogli, tra l’altro, perché troppo tardi, di poter tornare indietro, per essersi finalmente ravveduto sui mali del mondo.

Se saggiamente, ci si vuole ravvedere, bisogna farlo subito, senza aspettare la catastrofe e l’ormai “è troppo tardi”.

Il Cilento dopo aver sognato negli anni novanta del secolo scorso di poter cambiare e di avere sul suo territorio quel tanto atteso sviluppo, oggi terzo millennio, anno 2015 del ventunesimo secolo, sta facendo la sua precipitosa galoppata all’indietro.

Non sa essere positivo e tanto meno sa guardare al futuro, pensando insieme ad un intelligente progetto di cambiamento e di sviluppo, assolutamente possibile, assolutamente sostenibile, se ci fosse sul territorio una diversa condizione antropica; una condizione umana, prima di tutto, più seria, più determinata, più informata e formata, più capace di stare insieme ed insieme pensare al bene comune, forte di quell’appartenenza umana da far dire convintamene a tutti, “noi siamo il Cilento”.

Purtroppo, una forte identità umana capace di rappresentare insieme la regione Cilento non c’è; ancora c’è un frazionismo di campanile degli uni contro gli altri armati.

Ancora c’è, il profondo male di un familismo amorale per cui si vive in solitudine, pensando che è un bene per sé farsi i “cazzi propri”, riducendo il rapporto di insieme a soli manifestazioni-sceneggiate, soprattutto estive, finalizzate ad abbuffate di cibi che non hanno niente da spartire con il suolo cilentano e con i prodotti di una Terra, un tempo generosa e capace di produrre i frutti sani e saporiti della buona Terra cilentana.

Oggi, c’è solo e sempre più il falso cilentano di una gastronomia che non poggia le sue radici nei prodotti della Terra cilentana; tanto, perché c’è poca coltivazione; tanto, perché c’è poca produzione e quello che viene prodotto trova le terre di produzione sempre più avvelenate, sempre più violentate con l’uso-abusato ed indiscriminato di concimi chimici, di anticrittogamici e di diserbanti velenosi, usati indiscriminatamente, che vanno ad avvelenare il suolo e le stesse falde acquifere.

Questa è, oggi più che mai, la catastrofe Cilento, una catastrofe che fa crescere l’incertezza del proprio domani; una catastrofe di abbandono e di degrado, con i territori sempre più senz’anima e con tanta monnezza, spesso anche velenosa abbandonata in tutte le sue parti, con discariche spontanee che si vanno formando in ogni dove e soprattutto lungo i cigli delle strade sempre meno utilizzate, perché interrotte da frane e caduta di ponti, per cui luoghi splendidamente idonei a ricevere veleni e monnezza, brutta per il paesaggio e dannosa per il suolo e per la salute della gente.

Nell’area del Parco Nazionale del Cilento – Vallo di Diano l’atteso miracolo del cambiamento, proprio non c’è stato; anzi le sue condizioni, hanno subito nel ventennio verde, un ulteriore aggravamento, perdendo, su gran parte del territorio, preziose risorse umane, soprattutto giovanili e con queste preziosi servizi territoriali quali quelli delle scuole, degli uffici postali chiusi, delle strutture sanitarie, per falsa economia di spesa pubblica, cancellati dai territori, tra l’altro, sempre meno sicuri, sempre meno protetti, con strade interrotte, con frane devastanti che ne vanno modificando le caratteristiche, con un uso-abusato di veleni in agricoltura e con crescenti processi di invecchiamento e di desertificazione del capitale umano sempre più residuale, sempre più marginale ed indifferente ai decisori, convinti come non mai di poterlo mettere da parte, non contando assolutamente niente per il peso ininfluente nel governo dei territori.

E così, nell’indifferenza generale, il Parco ha subito in poco tempo la sua lenta ed inarrestabile agonia.

Da Parco delle attese e della speranza è passato ad essere oggi, l’Ente inutile dal crescente rifiuto territoriale da parte della gente e soprattutto dei rappresentanti istituzionali delle comunità locali.

Siamo ormai ed ancora una volta all’epilogo “dell’opera buffa”; opera con protagonisti, non protagonisti i cilentani, abituati, da sempre, fatalisticamente al peggio.

A quel “peggio di così” silenziosamente vissuto nell’indifferenza che ha cancellato da troppo lungo tempo, il futuro possibile ad una Terra che meriterebbe altri destini, se non fosse per quella sofferenza antropica che non ha reso mai protagonisti i cilentani, silenziosamente disposti a tutto, compreso l’amaro destino di abbandonare le terre dei padri, ieri come braccia alla ricerca di un lavoro per vivere, portando il pane a casa ed oggi come cervelli, alla ricerca di quel percorso di vita possibile, ma ancora una volta egoisticamente negato, così come ai loro padri; tanto, tra l’altro, per l’invadente miopia di una classe dirigente cilentana che, al protagonismo della partecipazione, ha preferito la sudditanza delle clientele facilmente gestibili, in quanto silenziose, senza pretese e pronte ad abbassare fatalisticamente la testa, nella libera convinzione che così e solo così devono andare le cose.

Aveva proprio ragione un illuminato Presidente del nostro Parco; mi pare il primo, nominato con l’intento di cambiare le condizioni umane all’interno dell’area protetta.

Si tratta del compianto Presidente prof. Vincenzo La Valva, mio amico, che spesso mi andava ripetendo e ripeteva alla gente del Parco, “il Parco siete voi”.

La illuminante verità dell’ormai dimenticato prof. La Valva, è tutta qui; è in quel “Parco siete voi” rivolto agli abitanti del Parco.

I cilentani anche di fronte a questa istituzione hanno mancato di protagonismo; hanno pensato che era giusto affidarsi come sempre agli altri nelle cui mani veniva direttamente affidata la loro vita e con la loro vita, il futuro del territorio che richiedeva necessariamente nuovi e sempre più responsabili atteggiamenti antropici. Niente di niente.

Si è continuato con il fare di sempre; si è continuato a vivere da rassegnati, emigrando; si è continuato a fare studiare i propri figli in scuole non sempre capaci di pensare al futuro dei giovani, pensando di poterli  garantire un giorno attraverso il posto fisso; si è rimasti dentro, come sempre familisti ed incapaci di fare rete, pensando al bene comune.

Si è, soprattutto, lungo la costa, pensato ad un turismo di rapina, fatto di villeggianti non turisti che, affollando i territori, hanno richiesto una crescente cementificazione degli stessi, con sempre maggiore scarsità di servizi e senza pensare minimamente ad ipotesi di un turismo alternativo; di un turismo culturale, storico, archeologico, con percorsi di trekking ed enogastronomici, capaci di cambiare, senza l’inopportuno numero delle masse, il futuro del Cilento, un futuro possibile, sempre che gli uomini del Cilento lo cerchino e da protagonisti ne determinino attivamente i contenuti.

Io che ho scritto tanto, ma proprio tanto sul Cilento e da ultimo anche sul Parco, proponendomi spesso con iniziative progettuali e culturali, sempre affidate al mio comunicare autentico, fortemente tentato a mettermi da parte e da “indifferente” stare a guardare, ancora una volta levo alto il mio grido di dolore per dire basta all’indifferenza; per dire basta alla rassegnazione.

Nel nome, universalmente importante dei saperi eleatici, saperi che hanno la loro centralità sull’essere, dico ai cilentani di uscire dall’indifferenza che uccide e da “protagonisti”, come popolo in cammino, unirsi e mettere insieme le tante, tante possibili idee per pensare a cambiare il Cilento, conservandone il suo Parco Naturale, un contenitore utile, sempre che abbia al vertice i cervelli per farlo funzionare, trasmettendo alla gente, come il ricordato Presidente La Valva, il forte messaggio di “il Parco siete voi”.

L’amara vicenda del ventennio verde è tristemente arrivata ai nostri giorni con un Parco assolutamente di carta; con un Parco che ormai non c’è (è finita anche la corsa per accaparrarsene in coabitazione la denominazione; nato come Parco del Cilento, così come per la legge istitutiva, cammin facendo, diviene Parco del Cilento e Vallo di Diano, per essere successivamente denominato Parco del Cilento, Vallo di Diano ed Alburni).

Di concretamente ancora disponibile c’è la sola sua denominazione. Altro, se non guasti e condizioni diffuse di malessere e disagio, proprio non c’è.

C’è, comunque, un Presidente intoccabile; il dott. Troiano è in regime di prorogatio da oltre un anno, essendo ormai esaurita la sua funzione di Presidente nominato.

È questo oggi, il Parco Nazionale del Cilento – Vallo di Diano ed Alburni.

Un Parco di cui neanche la gente dei maltrattati e sempre più invivibili territori se ne ricorda l’esistenza, se non per le sue tante dannate negatività ambientali con cui nell’indifferenza si è costretti a convivere.

E così il bel sogno di un organismo di protezione territoriale capace di cambiare il Cilento, garantendone, tra l’altro, la sua conservazione è, purtroppo, naufragato nel nulla.

Un altro tradimento per queste amare terre e per il Sud in generale.

Di chi la colpa? Prima di tutto del mancato protagonismo della gente del Parco.

Non ha saputo fare proprio, il bel messaggio dell’ormai dimenticato Presidente Vincenzo La Valva.

Quel “Parco siete voi”, avrebbe, cammin facendo, dovuto cambiare gli atteggiamenti della gente del Parco del Cilento; della gente che avrebbe dovuto capire l’importanza del proprio protagonismo nell’area protetta; non l’ha fatto, continuando nel proprio silenzioso ruolo di sempre; con indifferenza ha continuato a vivere delegando nelle inaffidabili mani di altri, i propri destini che, nel sofferto rispetto antropico di un “Cilento sedotto ed abbandonato” sono rimasti destini maledettamente negati.

Il Cilento non ha saputo, con l’istituzione positiva del Parco, diventando così territorio verde d’Italia, approfittare per darsi un Progetto di sviluppo possibile; tanto, mettendosi responsabilmente insieme, pensando insieme, mettendo insieme le proprie idee, agendo insieme, liberandosi da quel patrimonio scomodo del familismo amorale, per diventare una coesa comunità del Parco, pensando positivamente al bene comune, al di fuori ed al di sopra degli egoismi personali e di campanile.

Questo messaggio intelligente, da profonda mutazione antropica, purtroppo, non c’è stato.

Tutto, come prima, è rimasto impantanato in quelle acque stagnanti, con la gente timida e spesso paurosa del nuovo dei territori, con le dovute negative conseguenze anche sul comportamento umano.

E così nel Parco è cresciuta l’indifferenza; è cresciuto il non-protagonismo; tanto, cancellando anche quel poco di buono che era venuto al territorio nei suoi primi anni di funzionamento.

Il degrado crescente ha comportato crescenti sofferenze ambientali e territoriali; anche antropicamente le attese del cambiamento possibile sono andate man mano diminuendo con il ritorno alle culle vuote, alla desertificazione ed all’invecchiamento crescente della popolazione in violenta decrescita.

Non voglio apparire un inopportuno catastrofista o ancora peggio un rompiscatole; ma le cose dette sono in sé lo specchio più veritiero di una realtà tragicamente e concretamente vera.

Il Cilento, sta oggi, molto peggio di come stava negli anni novanta, quando venne istituito il Parco.

È cresciuto il degrado, il malessere territoriale, la violenta diffusione dei veleni sui territori; mentre nelle aree collinari, sono cresciuti l’abbandono, le sofferenze del suolo e l’invivibilità diffusa, lungo la costa è cresciuta la cementificazione, l’aggressione ai territori sempre meno verdi, con una confusa presenza invasiva di villeggianti non turisti che hanno portato con sé nuove e gravi forme di malessere diffuso, senza quella svolta possibile, per il tanto atteso sviluppo.

Povero Cilento nostro!

Oggi di fronte al fallimento del Parco, di fronte al vuoto umano anche da parte della Comunità del Parco che doveva farsi sentire e ben rappresentare da protagonista i territori e la sua gente, cosa che non ha fatto, assistiamo ad una levata di scudi da parte dei Comuni del Parco che, sentendosi traditi e non rappresentati nelle loro legittime attese di vita, hanno deciso di ribellarsi e di dire il loro no al Parco.

I ribelli in rivolta, considerando di essere costretti a subire i vincoli senza sviluppo, sono pronti ad uscire dal Parco dal vuoto territorio di 180.000 ettari ed 80 Comuni.

L’area più attivamente presente dei Comuni ribelli è, probabilmente, quella del Vallo di Diano; ma non mancano altri Comuni di altre realtà territoriali.

Dicono in coro, levando gli scudi contro il Parco, contro il loro Parco, che non sono padroni di tagliare la legna per riscaldarsi; dicono che c’è una vincolistica, senza benefici verdi, che mal tutela l’ambiente e comprime fortemente il sacrosanto diritto alla proprietà privata.

Denunciano, tra l’altro, una forte burocratizzazione del Parco e di chi lo governa nei confronti della gente costretta a subire una condizione di profondo malessere.

Alburni, Vallo di Diano, Cilento, contro la loro area protetta, nella quale, vengono denunciate, tra l’altro, grave situazioni di impatto ambientale.

Sono già state prodotte, in risposta alla gente che non ne può più del Parco, delibere di Consigli Comunali per la fuoriuscita dal Parco; tanto, con la grave motivazione che, i territori falsamente protetti, sono oggi in una condizione di “disastro ambientale ed economico”.

I Sindaci e le popolazioni che protestano e chiedono la fuoriuscita dal Parco, dicono, tra l’altro, che la vera politica del Parco ha per obiettivo dichiarato quello di mettere al centro la fauna e la flora, mettendo fuori l’uomo.

Nei 24 anni di Parco niente opportunità, niente benefici, così come pensati dalla gente che, all’inizio, si sentiva protagonista di un nuovo cammino umano e territoriale.

Di fronte a tanto fallimento, i ribelli del Parco di carta chiedono e con forza di tornare al centro della loro terra. Chiedono, con forza, “di essere i padroni dei terreni e delle idee”.

I ribelli in rete solidale, si sentono forti della loro decisione comune del “No-Parco”.

La fuoriuscita la vedono come una via obbligata; la vedono come l’unica soluzione possibile per creare vie nuove ai territori ed alla loro gente che, inopportunamente, oggi stanno morendo di Parco; tanto, con grave danno territoriale; tanto, con grave danno umano; tanto, con grave danno socio-economico del territorio verde che rischia, così facendo, tra l’altro, l’estinzione umana, con gravissimo danno per il suolo che, senza i suoi guardiani naturali, è inevitabilmente destinato al degrado e ad uno scivolamento a valle di territori deboli e sempre meno coesi.

Con un senso di profondo rispetto per il mio Cilento, di cui parlo sempre meno, per quel senso di sofferto silenzio, utile ed opportuna alternativa al giornalismo sempre più inopportunamente strillato, che non ha proprio niente in comune con il comunicare autentico, chiudo queste mie riflessioni, augurandomi che qualcosa di positivamente nuovo possa finalmente capitare anche al mio Cilento, dove c’è, purtroppo, una grande e non facilmente eliminabile sofferenza; una sofferenza che si chiama uomo, senza differenza di genere, che è bravo a crearsi problemi, senza poi sapere come affrontarli e soprattutto come risolverli, per realizzare quei mondi umanamente nuovi che, sebbene possibili, sono di fatto, assolutamente negati al Cilento.

È, il nostro Cilento, l’ombelico del mondo; tanto, per essere la Terra di Parmenide e di Zenone che ci hanno lasciato la grande eredità del pensiero dell’essere, una risorsa di saperi preziosi per cambiare quel mondo dell’apparire e della sola materialità dell’avere che ha inquinato l’uomo del nostro tempo, espropriandone maledettamente le coscienze, sempre più non-coscienze espressione di un’umanità dal futuro negato.

Concludo con una nota di grande e positivo ottimismo per il mio Cilento, ammalato di uomo; da sempre sedotto ed abbandonato ancora oggi continua ad esserlo proprio dal Parco Nazionale, un organismo che doveva rappresentare il futuro umanamente nuovo del Cilento, terra dei miti, terra dei saperi eleatici, terra di grandi testimonianze del passato, terra del paesaggio bello da vivere, terra dei saperi antichi e del cibo con caratteristiche salutistiche assolutamente uniche e con una profonda cultura della sacralità dell’ospite.

Tutto questo è il Cilento. Dal Cilento dei saperi, della cultura, della natura e del cibo amico, può venire l’atteso e necessario sviluppo. Basta volerlo; basta crederci; basta unire in un Progetto di vita le tante diversità cilentane.