PD contro PD: quando stare in minoranza pesa

Amedeo Tesauro

Al termine del burrascoso fine settimana del Partito Democratico quel che resta è la convinzione, presente fin dal principio del renzismo e ormai palese, che nel primo partito italiano convivano maldestramente due anime su posizioni perennemente inconciliabili. C’è il PD storico, quello erede della tradizione PCI/PDS/DS, determinato nel definire la propria identità politica e a combattere le battaglie “solite” combattute da un partito di sinistra (in primis quelle sul lavoro). Poi c’è il nuovo PD, quello dell’ex sindaco di Firenze che muove con decisione verso un superamento delle divisioni manualistiche, disposto a discutere con tutti ma fermo nel prendere le proprie decisioni, quello che in definitiva appare poco di sinistra, troppo ambiguo. Perché in fondo la questione si riassume tutta nella divisione categorica su ciò che ontologicamente è di sinistra o meno, nella volontà di una parte del partito di dirsi ancora schierato (il PD storico) e dell’altra di governare con tutte le variabili del caso (Renzi e i suoi). Ecco allora che la minoranza del PD, dalla Bindi a Fassina passando per Civati, si ritrovava in piazza con la CGIL nella più tradizionale delle associazioni col sindacato, pronta a tutelare i diritti dei lavoratori e difendere l’art.18. Nelle stesse ore il PD renziano, invece, si autocelebrava nella prima “Leopolda di governo”, kermesse ideata dall’attuale premier ai tempi in cui lui era solo una giovane promessa dello scacchiere politico italiano. La contrapposizione netta e fin troppo esplicita, gli uni al chiuso a magnificare il proprio successo e gli altri all’aperto a “lottare” alla vecchia maniera, consegna una pagina di storia politica tragicomica, alimentando un umorismo tanto crudele quanto fondato: il PD non sa vincere e quando per una volta si ritrova in vetta si affossa da solo. Renzi ci marcia su e ribatte che non darà nuovamente in mano il partito a chi lo condurrebbe dal 40 al 25 percento, praticamente dando dei perdenti a chi vi era prima di lui e ora non è sulla stessa lunghezza d’onda. Ne fa una questione di oggettivo riscontro con l’elettorato, per quanto giova ricordare che Renzi non si sia mai confrontato con un’elezione politica ma solo con le europee, consapevole dell’insofferenza verso le vecchie strutture (il sistema politico ma anche i sindacati). Dall’altro lato la questione è ontologica, come già si accennava, riguardante l’essere o meno di sinistra, ma è una questione non nuova e perciò vecchia, destinata a essere distrutta dalla retorica renziana abile nel parlare di nostalgia, passato, attaccamento alla posizione. Inoltre lo stesso attacco interno implicitamente dà credito a Renzi, ben disposto a rottamare ulteriormente il PD rinvigorendo la propria immagine provata dalle difficoltà di governo, permettendogli di lanciare una nuova offensiva comunicativa contro le vecchie facce e i gufi contrari al cambiamento. Allo stato attuale delle cose può fallire unicamente da solo, qualsiasi tentativo di ostacolarlo proveniente dall’interno non farebbe nient’altro che alimentarne la ragione e il culto della personalità.

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