Ex Jugoslavia, 20 anni dopo

Piero Lucia

Dal 1991, in un progressivo e tragico crescendo, nei Balcani, al centro dell’Europa, si dovette assistere alla deflagrazione di un ferocissimo conflitto politico, militare, etnico, economico, religioso di estrema, inaudita spietatezza. La caduta del Muro di Berlino del 1989 e la fine dell’equilibrio del terrore, tra Est ed Ovest, costruito sul deterrente della guerra nucleare, contro tutte le acritiche, ottimistiche previsioni, non significò l’automatico avvio della conclusione delle crisi e dei conflitti regionali, delle contraddizioni tra Stati Nazionali ed all’interno dei singoli paesi di un mondo che -da più parti- si riteneva, magicamente, quasi del tutto già pacificato. Il terremoto balcanico, iniziato nel 1991 con la secessione di Slovenia e Croazia, si rivelò anzi particolarmente aspro e sanguinoso ed ebbe un’ulteriore, brusca accelerata con l’estensione della guerra prima in Bosnia – Erzegovina e poi in Croazia, fino alla vicenda devastante del Kossovo e Metohija[1] che oppose Serbi ed Albanesi in una lunga e logorante reciproca guerra di sterminio. In quella occasione, come è noto, per la prima volta dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, in Europa, sotto la direzione militare della Nato, si mise in moto un’azione militare mondiale, su larga scala, che – nel suo culmine- si concretizzò nei bombardamenti sulle città serbe, e in specie sulla capitale, Belgrado. Le profonde ferite aperte da quella drammatica vicenda ancora oggi, dopo venti anni, non si sono definitivamente ricomposte. Un conflitto lacerante, che da tempo covava in gestazione e frantumava, come neve al sole, la dogmatica certezza che, dopo gli orrori e le stragi disumane dei conflitti mondiali del XX secolo, nessun angolo del vecchio continente sarebbe stato più teatro di guerre, eccidi e scontri devastanti. La realtà fece giustizia di tali, troppo ingenue convinzioni. Riemerse dalle ceneri il fuoco di antiche contrapposizioni mai sopite in via definitiva, si riproposero i vecchi localismi, ricomparvero i vessilli di letali nazionalismi contrapposti. La Serbia, il centro della Federazione Jugoslava, optò per il tentativo, rivelatosi col tempo rovinoso, del ripristino delle antiche “ragioni” di grandezza, il conflitto con gli altri popoli ed etnie si riattizzò. Non più il vecchio Stato Federale ma una nazione nuova, la Grande Serbia, che intendeva riaffermare una netta ed indiscussa egemonia, da garantire con ogni mezzo e a tutti i costi, contro le plurime spinte all’autonomia ed alla separazione. Tensioni scioviniste, nazionalismi esasperati, esplosioni irrazionali di volontà egemoniche, fondate sul dominio su altre, distinte identità, al contempo acute volontà di secessione ed il mosaico faticosamente costruito e cementato finiva per esplodere, sgretolando antecedenti forme di coesione ed unità. Dal vaso di Pandora scoperchiato emergevano odi e rancori antichi, un coagulo impazzito di profonde lacerazioni insaturabili. Slobodan Milosevic rappresentò, con grande abilità e demagogia, coi suoi atti e con il richiamo esasperato al nazionalismo serbo, la volontà feroce del pieno ripristino di un dominio e di un’egemonia che, da più parti, al contrario, si tendeva, per svariate ragioni, a diluire ed attenuare. Un dominio, ed un’egemonia, da realizzare ad ogni costo e gravidi di conseguenze distruttive rovinose! La premessa per la disgregazione conclusiva! La guerra del Kossovo, per la diretta contiguità dell’Italia con l’area del conflitto, e per il rilievo delle decisioni assunte allora dal Governo italiano, finì per coinvolgerci, come Stato, molto più intensamente di quanto fino ad allora era accaduto, almeno dalla fine del secondo conflitto mondiale in poi, ponendoci di fronte a drammatiche scelte di capo, impegnative e dolorose. La legittimità “dell’ intervento umanitario”, l’impossibilità di prescindere dalla comune azione d’intervento militare nella crisi. L’atto di guerra fu deciso dal contesto di alleanze in cui, come paese, eravamo collocati e si esplicitò fino alle più estreme conseguenze dei bombardamenti sulla Serbia e su Belgrado effettuati con l’ausilio delle nostre basi militari. La crisi, esplosa nel cuore dei Balcani, ci indusse a porci nuovi ed inediti problemi. La solenne dichiarazione, presente nella nostra Costituzione, secondo cui la nostra è una repubblica democratica che bandisce la guerra come metodo per risolvere le contraddizioni che insorgono tra i diversi Stati e al loro interno, veniva in sostanza stravolta e confliggeva con le dichiarazioni generali e di principio. Dopo un lungo tergiversare ora si trattava di decidere di intervenire, militarmente, da parte della Nato, senza ulteriori indugi, per impedire la realizzazione di una strage etnica di massa contro la comunità albanese, largamente maggioritaria nell’enclave. L’Europa, in verità, a fronte dell’inasprirsi del conflitto che montava, aveva dato a lungo prova, in precedenza, di grave sottovalutazione e d’incapacità di alcuna azione coordinata e coesa dal punto di vista politico e militare. Si era dimostrata assolutamente imbelle! Il vecchio continente era stato del tutto incapace di praticare una politica comune preventiva, di contrasto e dissuasione, rispetto a ciò che accadeva e che in realtà era in gestazione già da tempo. Stragi si succedettero così a stragi ed uccisioni, a stupri di massa ed alla “pulizia etnica”. Un intero popolo fuggiva dalla propria terra, lasciando le proprie case e tutto ciò che aveva. La guerra divampava, né si perveniva ad alcuna soluzione. Ogni compromesso tra le opposte forze in campo si rivelava impraticabile. Una fila di profughi infinita, di centinaia di migliaia di persone, in cerca di un’improbabile salvezza. L’Europa, nel suo complesso, si era colpevolmente illusa che la controversia si sarebbe risolta in maniera naturale, per inerzia, ed aveva così evitato di svolgere, in maniera attiva e coordinata, qualsivoglia eventuale azione dissuasiva. Ci si era voluti tenere, fino a quel momento, il più possibile lontani dal pantano dei Balcani, dal cuore della crisi che montava. Nel centro della vecchia Europa divampò di nuovo una guerra sanguinosa, di natura etnico, politica, religiosa che frantumava il mosaico unitario che, fino ad allora, aveva visto convivere, in maniera pacifica, grazie all’autorità di Tito, una pluralità di etnie e di popoli diversi, in una stessa area territoriale, in una nuova nazione solo da pochi decenni unificata.  Il conflitto esploso contrapponeva Serbi, Croati, Sloveni, Albanesi del Kossovo, Macedoni, Montenegrini, Bosniaci, cattolici, ortodossi, musulmani.La Jugoslavia era uno Stato giovane, sorto all’indomani del secondo conflitto mondiale dalla disgregazione del vecchio Impero Austro-Ungarico ed aveva vissuto un periodo di ripresa garantito dalla funzione carismatica di Tito che sembrava avere iniziato a realizzare un processo di autentico rinnovamento e di sviluppo della travagliata storia nazionale. Una situazione che inizierà a mutare rapidamente proprio all’indomani della sua morte, nel 1981. Né sarà sufficiente la decisione di dare la presidenza dello Stato, a turno, alle rappresentanze delle diverse etnie di quel complesso mosaico di storie e cultura che, fino ad allora, aveva convissuto in un clima di sostanziale concordia ed unità.[2] La spinta all’autonomia ed alla separazione, sollecitate sotto traccia anche da alcuni dei principali Stati occidentali, di certo trovava la sua origine anche nelle diverse condizioni di sviluppo economico e di qualità di vita delle diverse regioni interne alla nazione jugoslava. Una realtà che, indubbiamente, presentava differenze accentuate al proprio interno, le più marcate tra serbi, croati e kossovari, una contraddizione, acuta, che non si era ancora riusciti a superare. Gli abitanti del Kosovo, tra le varie etnie, erano quelli che vivevano nelle peggiori condizioni! Il loro reddito medio era meno di un terzo di quello dei serbi e dei croati. Eppure, nella fase antecedente, il “modello jugoslavo” era sembrato più dinamico ed avanzato rispetto alle situazioni degli altri Stati e regimi socialisti d’Europa sottoposti al controllo sovietico. Il modello dell’autogestione presentava specificità assai distinte rispetto a quello, autoritario e verticistico, proprio dei regimi di socialismo di Stato. E la Jugoslavia, sotto la guida di Tito, era riuscita, vincendo resistenze anche assai marcate, a garantire, al suo sviluppo, un carattere di autonomia e di specificità che la distingueva dai paesi del Patto di Varsavia. Tito era diventato, con Nehru e con Nasser, uno dei principali leader del “movimento dei paesi non allineati”, volendo a un certo punto rimarcare una propria, decisa autonomia rispetto alle grandi potenze mondiali del tempo. Un’autonomia, e un’identità nazionale peculiare, ricercata e difesa con tenacia, che era stata anche il detonatore dello scontro con Stalin ed il Cremlino. Ora questo processo originale subiva una violenta battuta d’arresto repentina e regrediva. Popoli ed etnie diverse, vissuti per decenni in un clima di reciproco rispetto e tolleranza, adesso si scontravano in una maniera aspra e sanguinosa, con una ferocia tale che finiva per vedere riesumate le fasi più atroci e sanguinose in cui, nel corso del secondo conflitto mondiale, si era consumato, su fronti contrapposti, il conflitto tra gli Ustascia di Ante Pavelic, i Cetnici, i partigiani titoisti. Stragi etniche, stupri di massa, fosse comuni ed uccisioni indiscriminate di civili, luoghi e città divenuti nella percezione collettiva simboli del male sulla terra. La guerra divampata nell’ex Jugoslavia evidenziava, con estrema crudezza, quanto di più impensabile l’uomo è capace di fare se si abbandona ai suoi istinti peggiori. Vukovar, con l’assedio e la mattanza subita dai croati ad opera dei serbi, Mostar, con i massacri di innocenti senza nome, Srebrenica, con i circa 8.000 morti voluti dal generale serbo Mladic, Sarajevo, la città abitata in prevalenza da popolazione musulmana, posta sotto assedio dalle alture per 4 anni dall’artiglieria pesante dell’armata federale jugoslava, la repubblica della Krajina, sottratta ai croati e poi, alla fine del conflitto, riconquistata con feroci massacri compiuti contro la minoranza serba, così come avverrà a Banja Luka, il Kosovo, Dubrovnik, a lungo bombardata e ridotta in più parti a una rovina, alcuni dei nomi-simbolo di regioni, luoghi e di città violate ed offese nella loro secolare storia e civiltà. Una riedizione, moderna, di un inferno, autentico spirito del male che agisce senza freni ed indiscriminatamente contro l’uomo.[3] In Bosnia il conflitto aveva avuto una sua provvisoria conclusione con la pace di Dayton, siglata alla fine del 1995, che sanciva la creazione al suo interno di due entità, la Federazione croato-musulmana ( cui verrà assegnato il controllo del 51% del territorio e la Repubblica Serba( 49% del territorio). Entrambi avranno la possibilità di formare un proprio esercito. E’ quello il segnale dell’avvio del naufragio del sogno serbo di espansione e di conquista. Un accordo siglato dal Presidente serbo Slobodan Milosevic, dal croato Tudjman, da Alija Izetbegovic, in rappresentanza della componente bosniaco-musulmana e garantito dal Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton. La tregua stipulata non coinciderà, purtroppo, con la definitiva conclusione della guerra. Si verificheranno ancora devastazioni, incendi e distruzioni in Croazia, in Kossovo, perfino nella stessa Macedonia. L’aspro conflitto vivrà la propria conclusione solo verso la metà del 2001, coincidendo in sostanza con l’arresto di Milosevic e l’inizio della sua detenzione, in attesa del processo, nel carcere di Belgrado.[4] In verità è stato di sicuro “Slobo” il principale protagonista della guerra e delle ragioni del suo indiscriminato estendersi e protrarsi. Sua la grave responsabilità di avere a lungo rifiutato ogni ragionevole soluzione diplomatica. La pace è avvenuta in coincidenza dell’intervento Nato e del cambiamento di scenario sul terreno, nella fase in cui non si registrava più l’egemonia militare serba ed anzi si sviluppava la controffensiva croata e la reazione albanese e dei combattenti dell’UCK.[5] Eserciti entrambi potentemente finanziati e riarmati dalle potenze occidentali. Conclusa la fase più acuta e sanguinosa, oggi, col relativo distacco consentito, tracciando un bilancio ed una riflessione provvisoria, è il caso di rilevare come vada evitato, ad ogni costo, il rischio di un aggiornato oblio della memoria. Bisognerà stroncare sul nascere, ovunque si manifesti, di comune intesa, ogni recrudescenza esasperata di odi etnici, politici, razziali, religiosi. Ed operare, come Europa democratica nel suo complesso, meglio e più incisivamente di come è successo allora, per prevenire deflagrazioni e conflitti di massa distruttivi. E’ letale rinchiudersi nei recinti limitati dei propri localismi! In conclusione imparare dalla storia, per quanto ciò è possibile, ad evitare la replica degli errori già compiuti, intervenendo non dopo ma prima che i conflitti esplodano producendo irreparabili lutti rovinosi. Quanto è accaduto venti anni or sono nei territori dell’ex Jugoslavia , pur nella sua tragicità, è solo un esempio, esemplificativo e parziale, di ciò che ancora può succedere, in più parti del mondo, anche in maniera, se possibile, più aspra e sanguinosa. Una compiuta ricostruzione di quella vicenda, della sua genesi, delle sue vere cause, delle sue ragioni, seppure in maniera necessariamente parziale ed incompleta, è perciò utile ed attuale.Il pensiero corre al groviglio di tensioni, ancora largamente irrisolte, presenti nel grande impero ex sovietico, un territorio sterminato, in più luoghi puntellato da basi nucleari, alla riedizione di nuove contraddizioni tra il Sud ed il Nord del mondo, ai conflitti ed alle carestie che scuotono il grande continente nero, al grande e confuso sommovimento che, in tempi recenti, ha investito immense masse umane dell’Africa del Nord e del Medio Oriente, al protrarsi di crisi regionali, come in Irak ed in Afghanistan, ancora ben lontane dall’essere risolte .[6] Spinte che sembrano richiedere risposte fondate su una consapevolezza nuova, su una diversa dimensione della qualità di una politica globale da ancorare agli irrinunciabili principi di maggiore giustizia e libertà, che devono essere aiutati a realizzarsi nel concreto. Aree, di criticità diffusa, ma che impongono l’obbligatorietà di vivere il tempo presente con l’affermarsi di un nuovo governo mondiale delle contraddizioni, su un piano interconnesso tra livello locale, internazionale, globale, su una pluralità di diversi terreni, politici, economici, istituzionali, religiosi, culturali. Complesso e difficile è oggi il processo di integrazione di popoli e culture diverse nella nuova Europa che, questo è l’auspicio, d’ora in avanti, dovrà fare ogni sforzo per procedere in concordia e sintonia bandendo via da sé ogni violenza, conflitto, prevaricazione, intolleranza. Urge la riscrittura di una carta comune dei principi della nuova Europa! Da questo punto di vista, e non solo da quello, di certo decisivo, della coesione economica e finanziaria, la creazione dello Stato europeo, della realizzazione di una sua più solida unità politica appare una scelta di assoluta priorità, da perseguire con tenacia, una necessità urgente, non oltre rinviabile. Ancora più attuale a fronte dell’evidente rischio di declino del vecchio continente nel nuovo scenario mondiale, di crisi dell’unilateralismo, e sempre più segnato dall’avanzare tumultuoso di nuovi popoli e nazioni, a partire dall’India e dalla Cina, che ridisegnano nella contemporaneità inedite, nuove gerarchie, mai in precedenza conosciute. Una prova ed una scommessa, complessa e impegnativa, densa di pericoli ed incognite, come sempre avviene quando il mondo si muove per ridefinire un suo nuovo, inedito equilibrio, ma banco di prova di cogente attualità, questione vitale e decisiva per il destino dell’umanità nel suo complesso.Foto. solomnibuslucet.wordpress.com

                                                                                                                              


[1] All’epoca dell’impero romano d’oriente e dell’impero medioevale serbo, in Kosovo e Metohija vi erano più chiese e monasteri che in ogni altra parte d’Europa. Il simbolo culturale, giuridico, spirituale solenne di Bisanzio. Lì, nella Gerusalemme cristiana di quell’epoca, nella “ terra dei monasteri e degli uccelli neri”, nel 1389 i Turchi sconfissero i Serbi, scardinando il muro di difesa cristiano fino ad allora interposto alle loro scorribande per l’Europa. Da allora in avanti la storia, la cultura,  lo spirito del popolo serbo porteranno i segni dolorosi della sconfitta in Kosovo. Una situazione che si protrarrà a lungo, fino al 1912, anno d’inizio della caduta dell’impero ottomano, determinata anche dalla trionfale vittoria serba contro i Turchi avvenuta in Kosovo. Una rivincita storica di valore immenso. Un autentico  simbolo dell’orgoglio serbo. 

[2] Dino Frescobaldi, “ Jugoslavia-  Il suicidio di uno Stato”, Ponte alle Grazie Editore, Firenze, indaga le principali differenze storiche, politiche, religiose presenti all’interno del complesso puzzle dell’ex Jugoslavia. Di particolare interesse la descrizione delle influenze delle diverse potenze straniere sulle singole regioni jugoslave. L’analisi tenta di dare una risposta al quesito del perché uno Stato che per un certo tempo, nell’area balcanica e non solo, aveva costituito un punto di riferimento per la sua politica estera indipendente e per l’originalità di alcune sue riforme istituzionali ed economiche, finisca ad un certo punto per spezzarsi e frantumarsi regredendo in un medioevo di lotte e faide mortali tra le sue diverse componenti.

[3] Per una ricostruzione del conflitto e delle ragioni da cui è stato originato si può consultare il volume “ La guerra dei dieci anni- Jugoslavia 1991-2001: i fatti, i personaggi, le ragioni dei conflitti”, a cura di Alessandro Marzo Magno, “ Il Saggiatore” editore, giugno 2001

[4] La rivista di geopolitica “ Limes” tornerà ad occuparsi della guerra nella ex Jugoslavia nel n.5 dell’anno 2000 “I Balcani senza Milosevic”, analizzando, nei dettagli, le principali mutazioni geopolitiche nell’area determinate dalla caduta del leader serbo.

[5] Sulla guerra in Kossovo e le ragioni dell’intervento armato antiserbo assai utile la lettura del quaderno speciale di “Limes”, supplemento al n.1 del 1999 “ Kosovo, l’Italia in guerra”

[6] Sul grande sommovimento in atto in Africa del Nord e nel Medio Oriente si consiglia la lettura del numero monografico della rivista Limes del gennaio 2011 “Il grande Tsunami”.