La realtà della realtà: quale incidenza può avere nella pratica l’idea cha abbiamo della realtà?

       Fulvio Sguerso

Nel linguaggio comune la parola “realtà” ha un significato evidente e inequivocabile, come i suoi derivati: reale, realismo, realistico, realizzato, realizzazione, ecc.; significato opposto, e normalmente contrapposto, per esempio a quello di sogno, fantasia, illusione, delirio, immaginazione, favola, romanzo, mito, leggenda, ecc.; inoltre siamo per lo più persuasi che gli oggetti reali esistano fuori di noi e siano così come ci appaiono Ma se poniamo un momento attenzione alla facilità con cui siamo ingannati dai nostri sensi, ad esempio quando ci sembra di riconoscere qualcuno da lontano che poi da vicino si rivela uno sconosciuto, oppure quando vediamo convergere i lati di un rettilineo in autostrada, o magari ci pare di scorgere inesistenti pozzanghere sull’asfalto; o addirittura ci spaventiamo se, di notte, in un bosco sferzato dal vento, vediamo strane ma innocue ombre agitarsi sul sentiero che stiamo percorrendo in totale solitudine; o se consideriamo che oggi è possibile  persino costruire, grazie alla tecnologia elettronica e informatica, una realtà virtuale in tutto simile a quella naturale, allora  cominceremo a dubitare che la realtà sia qualcosa di assolutamente certo e vero in sé e per sé, indipendente ed estranea al modo in cui la percepiamo e alla nostra particolare e soggettiva visione del mondo. Quindi sarebbe più corretto parlare non della realtà, come se ce ne fosse una sola, ma delle realtà, al plurale, dal momento che ci sono tante realtà quanti sono i soggetti che sentono, percepiscono, pensano e agiscono nel mondo, anzi, nei mondi relativi all’esperienza di ciascuno. Un’altra questione è quella dell’esistenza o meno di queste realtà al di fuori dei soggetti che le pensano; come possiamo infatti essere sicuri che le cose non solo siano così come ci appaiono ma addirittura esistano al di fuori del pensiero? Possiamo forse percepirle diversamente che tramite i nostri sensi? E chi decodifica le sensazioni se non il soggetto che le pensa, proprio quel soggetto che, abbiamo visto, è così incline all’errore e all’autoinganno? E con quale facoltà asseriamo che le cose esistono al di fuori del pensiero se non con il pensiero stesso? Possiamo forse pensare qualcosa senza pensarla? Nel momento in cui pensiamo qualcosa questo qualcosa fa parte del pensiero, e pensare al di là del pensiero sarebbe come pretendere di conoscere ciò che non si conosce o di vedere una cosa senza vederla, e così via. Eppure, si obietterà, malgrado tutte queste sofisticherie, il mondo esiste, per il semplice fatto che esisteva prima di noi e continuerà ad esistere quando noi non ci saremo più. Giusto; ma se ci domandiamo dov’è andato a finire il mondo di ieri e dove si trova il mondo di domani ricadiamo ancora nel pensiero, o nella memoria, o nell’immaginazione, o nelle ipotesi, o nel desiderio, o nel sogno, o nel calcolo delle probabilità. E ancora: siamo proprio sicuri che le illusioni o i sogni non esistano? La psicologia del profondo distingue una realtà esterna, fatta di oggetti, situazioni, persone concrete, eventi che influiscono sul soggetto, e una realtà interna, o psichica, fatta di pensieri, fantasie, desideri, emozioni, sogni, sentimenti che agiscono anch’essi sul soggetto non meno (e, anzi, forse di più) degli stimoli provenienti dall’esterno. E’ stato Freud a osservare, approfondendo le ricerche di Charcot sull’isteria, che certi avvenimenti infantili, reali o fantasticati che fossero, agivano comunque nella psiche fino a tradursi in sintomi nevrotici; quindi i ricordi e le fantasie possiedono una loro indubitabile realtà, sovente in contrasto con la realtà materiale esterna. L’esempio classico della presenza e dell’attività di una  realtà psichica diversa da quella esterna è quello del sogno: nel sogno, infatti, il lavoro onirico trasforma pensieri e desideri rimossi dalla coscienza  in configurazioni e rappresentazioni simboliche prodotte dai meccanismi inconsci di spostamento e condensazione (corrispondenti alle figure retoriche della metonimia e della metafora), sostituendo così la realtà esterna con quella interna e pensieri e desideri inaccettabili in altri meno perturbanti.. Nondimeno queste due realtà non sono incomunicabili: i loro rapporti sono regolati, secondo Freud, dai meccanismi difensivi dell’”introiezione”, per cui gli oggetti esterni vengono trasferiti nella realtà interna, e della “proiezione”, per cui sentimenti e immaginazioni vengono proiettati all’esterno e riferiti a cose e persone della realtà esterna. Per C. G. Jung non v’è dubbio che la realtà interna sia più reale di quella esterna, dal momento che le nostre illusioni e immaginazioni orientano anche le nostre percezioni e interpretazioni dei dati sensoriali; inoltre, tanto la cosiddetta realtà sensibile o materiale quanto quella intelligibile o spirituale è accessibile solo attraverso il filtro della realtà psichica, la sola di cui siamo immediatamente certi; e la stessa esistenza corporea, a ben considerare, non è che una deduzione, dal momento che non conosciamo la materia in sé ma la percezione che ne abbiamo secondo i modi del nostro percepire. Questo non toglie che sia possibile il cosiddetto “esame di realtà” , cioè quella funzione dell’Io che, secondo Freud, ci permette di discernere gli stimoli provenienti dall’esterno da quelli interni, e di distinguere  la percezione degli oggetti esterni dalla loro rappresentazione deformata dal desiderio o da un ricordo angoscioso. Le nostre realtà psichiche differiscono dunque le une dalle altre, e questo comporta sovente difficoltà comunicative, incomprensioni e conflitti interiori ed esterni, quando non vere e proprie patologie. Il modo in cui comunichiamo, infatti, determina anche il tipo di realtà in cui veniamo a trovarci. E’ questa la tesi sostenuta e argomentata da Paul Watzlawick in La realtà della realtà, Astrolabio, 1976: “Lo stretto nesso tra realtà e comunicazione è un’idea relativamente nuova. Sebbene fisici e ingegneri abbiano già da molto tempo risolto i problemi della trasmissione efficace dell’informazione, sebbene i linguisti siano da secoli dediti all’esplorazione dell’origine e della struttura del linguaggio, e i semantici si siano addestrati  nello studio dei significati, dei segni e dei simboli, la pragmatica della comunicazione, cioè i modi in cui le persone possono spingersi a vicenda verso la pazzia, e le concezioni del mondo, diversissime, che possono insorgere a causa della comunicazione, sono diventati un campo di ricerca indipendente solo negli ultimi decenni”. Come è dunque possibile che la “realtà” (vecchia o nuova) sia indipendente dal linguaggio e dal pensiero (debole o forte ch’esso sia)? Inoltre, se la signora realtà è e rimane quella che è, qualunque cosa noi pensiamo – o diciamo – di lei, che senso ha proporci di cambiarla quando non ci piace? Dal momento che il New Realism si propone di “tornare ai fatti” non per accettarli così come essi sono, ma per cambiarli, come e quando potrà farlo se questi sfuggono al pensiero di chi vorrebbe modificarli secondo i suoi motivati e, vogliamo credere, giusti desideri? Non sarà più facile che siano i “fatti” (o presunti tali) a cambiare noi e quello che ne pensiamo? A questo punto è chiaro che non tutti i fatti sono uguali, o meglio, ugualmente “oggettivi” e incontrovertibili: un conto sono i fatti naturali come un temporale, una nevicata, la caduta delle foglie in autunno, la fioritura in primavera, una valanga, un terremoto o le fasi lunari; un altro sono i fatti storici come la sconfitta di Napoleone a Waterloo o la proclamazione del Regno d’Italia. Per questo, quando ci si richiama alla realtà (o addirittura alla “verità”) dei fatti, bisognerebbe almeno specificare di quali. Ecco, appunto, tra tutti i fatti che accadono, a quali intendono tornare i nuovi realisti? A tutti è impossibile, quindi devono scegliere. Con quale criterio? A ciascuno il suo (fatto)? Altra questione: un omicidio è o non è un fatto? E tuttavia lo si interpreterà in modi differenti a seconda delle circostanze in cui avviene: se avviene in guerra, può essere un atto di coraggio, se avviene in pace, e non per legittima difesa, è un delitto. In guerra merita una decorazione al valor militare, in tempo di pace una condanna all’ergastolo, o, là dove esiste, alla pena capitale. Non basta: come distingueremo i fatti in buoni o cattivi, giusti o ingiusti se non possediamo un criterio etico univoco e universale? “Ora, io voglio affermare che – osserva Wittgwnstein – mentre   si può mostrare come tutti i giudizi di valore relativo siano pure asserzioni di fatti, nessuna asserzione di fatti di fatti può mai essere, o implicare, un giudizio di valore assoluto. Permettetemi di spiegare ciò: supponiamo che uno di voi fosse  onnisciente, e conoscesse quindi tutti i movimenti di tutti i corpi nel mondo, vivi o morti, e conoscesse anche tutti gli stati mentali di tutti gli esseri umani che siano mai vissuti, e supponiamo che quest’uomo abbia scritto tutto ciò che sa in un grosso libro, che conterrebbe l’intera descrizione del mondo: quel che voglio dire è che questo libro non conterrebbe nulla che noi potremmo chiamare un giudizio etico o qualcosa che logicamente implichi tale giudizio. Conterrebbe, certo, tutti i giudizi di valore e tutte le vere vere proposizioni scientifiche, e, in realtà, tutte le vere proposizioni possibili. Ma tutti i fatti descritti darebbero, per così dire, allo stesso livello, e, allo stesso modo, tutte le proposizioni…Se, per esempio, in questo  libro universale leggiamo la descrizione di un delitto, compresi i particolari fisici e psicologici, la pura descrizione di questi fatti non conterrà nulla che potremmmo definire una proposizione etica. Il delitto sarà esattamente sullo stesso livello di un qualsiasi altro evento, per esempio la cadita di una pietra”  (Lezioni e conversazioni, Adelphi, 1967). Una descrizione, infatti, non è un giudizio. Ma nel caso di un delitto, parla il fatto stesso: se è ben descritto non c’è bisogno di aggiungere altro. E se si aggiungesse altro, per esempio l’orrore, la pietà per la vittima, il disprezzo per l’assassino, non esprimeremmo un giudizio, il nostro giudizio morale? Più che un giudizio si tratterebbe di un altro fatto accanto al primo: io provo questo e quest’altro sentimento, come dire uno stato mentale, e uno stato mentale è quello che è, né buono né cattivo. Insomma, Wittgenstein ci sta dicendo che così il bene come il male assoluto sono inesprimibili a parole, perché nessuna situazione “possiede, in quanto tale, quello che mi piacerebbe chiamare il potere coercitivo di un giudice assoluto”. Ma se così stanno le cose, con quale criterio diverso dall’utile o dannoso, o dal piacere o dal dolore, potremo mai distiguere  il bene dal male in questo mondo? Quello che posso incontrare sarà sempre un bene relativo e un male relativo a un determinato soggetto, per me, per te, per qualcuno, non mai in sé e per sé? Questo è il problema, direbbe Amleto.

 

 

3 pensieri su “La realtà della realtà: quale incidenza può avere nella pratica l’idea cha abbiamo della realtà?

  1. Il giudizio prevede necessariamente un giudice e perciò si ritorna al punto di partenza e cioè alla mente, al pensiero di colui che emette il giudizio. Per essere “oggettiva” la realtà dovrebbe essere dunque al di là del giudizio stesso, poichè l’emissione di una giudizio sia esso positivo o negativo impone la presenza di un soggetto e rende quindi la realtà soggetiva, ciò che per me è un bene per te può essere un male! Dovremmo quindi dire che la realtà semplicemente è ciò che è senza aggiungere altro. Ma se così stanno le cose la realtà in quanto tale dovrebbe essere percepita nello stesso identico modo da ogni essere presente sul pianeta, poichè si limita ad esistere fuori di noi, che ne saremmo quindi sia parte integrante sia osservatori non giudicanti, non avremmo quindi modo di modificarla in alcun modo eppure la realtà, apparentemente almeno, viene continuamente modificata tramite azioni che nascono da un pensiero che deve presupporre un giudizio, poichè ciò che vado a modificare o cerco di modificare è qualcosa di esterno a me che io ritengo migliorabile o peggio negativo, se no per quale assurda ragione cercherei di modificarlo? Nel momento stesso in cui vado ad emettere un giudizio la realtà perde la sua oggettività esterna per divenire soggettiva ed interna e questo avviene ogni istante in ogni mente pensante del pianeta. Dunque dov’è la realtà? è esterna immutabile ed ingiudicabile o interna continuamente modificabile persino dalla stessa persona che giudica la stessa realtà diversamente in periodi diversi della propria vita? Oppure essa è interna ma, al di là del giudizio che il pensiero emette e pertanto immutabile ma non percepibile se non da chi riesce ad asternersi dal giudicarla?
    A presto
    Andrea

  2. Caro Dr Fulvio Sguerso,
    Credo che sia questione abitudinaria di tante persone di distogliere il pensiero dalla realtà.
    Secondo me , vi sono molte alterazioni che separano , appunto, la realtà dal pensiero, tanto è vero che molti individui , in accordo con la loro innata ambiguità ,
    non sono in grado neppure di riconoscere le copie dei propri pensieri.
    Il pensiero è vita, ma se si parla di sogni che, semmai, ci riportano nel mondo vissuto e non più esistente, significa che la nostra mente si riporta,, in qualche modo . nel mondo della subcoscienza . I sogni ci fanno addentrando in fatti vissuti, ed ecco perché il pensiero invade il percorso della realtà. In ogni mente umana, a mio avviso , vi è sempre custodita una infinità di dati , depositati nella nostra mente. Allora, se il pensiero non ha una folta radice ben radicata nella propria mente, non vi può essere quel connubio tra pensiero e realtà.
    A tutto ciò vorrei aggiungere che vi sono pensieri talmente sofisticati e maligni che sanno leggere fino in fondo la loro realtà, stravolgendo il senso dei pensieri onesti che viaggiano su binari diversi.
    Cordialità Alfredo

  3. “Realtà” deriva dal latino “res”, cioè “cosa”. Ma se ci chiediamo che cos’è una “cosa” ci accorgiamo subito dei limiti del nostro linguaggio, perché non possiamo definire esattemente che cosa sia una cosa in generale, ma solo definire “una” cosa particolare, questa cosa qui (che so: la tastiera del computer, il foglio su cui scrivo, il portapenne che è sul tavolo, ecc.); insomma io posso descrivere “solo” cose e non mai “la” cosa in sé. E come mai non posso descrivere la cosa in sé? Perchè la cosa in sé non è percepibile ma solo pensabile, o meglio, ipotizzabile: non è, paradossalmente, una cosa ma un’astrazione. Quindi il problema si sposta dalla “cosa” alle “cose”. Come si può dubitare che esistano le cose che vediamo, tocchiamo, manipoliamo, usiamo, ecc.? Infatti, non ne dubitiamo (a meno di non dubitare dei nostri sensi). Quello di cui invece possiamo dubitare è che le cose siano, o stiano, così come noi le vediamo, tocchiamo, gustiamo, odoriamo, ecc.: noi infatti vediamo soltanto “fenomeni” non “cose in sé”. Eppure anche i fenomeni provengono da qualche parte, da un “altrove” a noi sconosciuto ma “reale”, altrimenti non li potremmo nemmeno percepire. Sì, solo che, nel momento in cui li percepiamo, noi li “filtriamo”, o, se preferisci, li “interpretiamo”. Ed è proprio dal modo in cui li interpretiamo che può dipendere il loro “senso” e il loro “valore”.
    Dal nostro modo di interpretare i fenomeni dipende anche il nostro modo di vivere e di “interpretare” noi stessi…Ed è qui che il discorso si fa concreto, concretissimo…Ed è qui che possiamo anche cadere in mille trappole linguistiche e “prospettiche”, o in “giudizi” arbitrari e infondati (con le nefaste conseguenze che ne possono derivare). Per questo è necessario il dialogo e il confronto; non per niente ci è stata data la parola…E qui, per ora, mi fermo.
    Grazie, cara Andrea, per le tue acute osservazioni “dialettiche”, che portano il nostro dialogo sempre più in là…

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