Donne allo specchio: Anna Maria Franzoni

Giovanna Rezzoagli

Dieci anni fa avvenne l’infanticidio che sconvolse l’Italia intera. Il piccolo Samuele Lorenzi morì il 30 gennaio 2002, ucciso dalla sua mamma Anna Maria Franzoni, almeno, questa è la verità che ha consegnato alla giustizia la magistratura italiana. La Franzoni si è sempre professata innocente, ha puntato il dito su altri soggetti, ha pianto in televisione, non ha mai accettato le sentenze dei giudici. Forse è sincera, forse non vuole ammettere nemmeno con se stessa la possibilità di aver ucciso il proprio bimbo, forse, semplicemente, non le è possibile. Dopo dieci anni è tuttavia possibile affermare che il “caso Cogne” è stato il primo di una lunghissima serie di gravi fatti di cronaca ampiamente mediaticizzati. L’intero Paese si è diviso per anni ed anni tra innocentisti e colpevolisti, migliaia di turisti del macabro si sono recati sul luogo del delitto, in una sorta di folle pellegrinaggio. Dopo dieci anni, cosa resta? Una verità processuale, una madre in carcere, soprattutto resta un bambino morto in un modo atroce. Cosa spinge una madre a sopprimere il proprio figlio? Nei primi mesi di vita di un neonato, la cosiddetta “depressione post-partum” può effettivamente spingere una neo-mamma ad un gesto così estremo. Molto difficile disaminare la psicodinamica che si nasconde dietro queste tragedie, ma non di rado alla base è presente un forte senso di inadeguatezza verso il proprio ruolo di madre. Difficilmente ci si può appellare alla depressione post-partum dopo il primo anno di vita del bimbo, quando tra madre e figlio si dovrebbe essere istaurato un rapporto più equilibrato. Può capitare tuttavia che una madre non accetti in parte o totalmente il proprio figlio e che desideri sopprimerlo, anche a livello inconscio. Sembra una negazione stessa della maternità, eppure alcune donne vivono questa esperienza così totalizzante con un senso di onnipotenza, di tipo narcisistico poiché mette il proprio essere al centro. E’ come se queste madri dicessero: “Io ti ho dato la vita, io te la tolgo”. E’ assai meno raro di quanto si vorrebbe credere che ciò accada. Questa è la vera negazione della maternità: porre, se stesse ed il proprio interesse, di fronte al bene del proprio piccolo. Il mito della mamma sempre buona e dolce, in realtà, è purtroppo un mito. Sono tante le donne che, pur ovviamente non giungendo all’infanticidio o all’aborto, vivono la maternità come una condanna ineluttabile, loro imposta dalla cultura e da fattori sociali. L’essere madre dovrebbe essere una scelta consapevole. Consapevole nel bene e nel male, perché non tutti i fiocchi rosa o azzurri sono come si desiderano o come si sognano. Ci vuole consapevolezza e senso di responsabilità e, tanto tanto coraggio ad essere mamme, perché la vita è spesso cattiva. Senza scomodare troppo lo stereotipo della mamma italiana tutta apprensione e coccole, l’essenziale per vivere una maternità il più possibile serena è tutto in una parola: consapevolezza. Serena consapevolezza che i figli perdonano anche lo sbaglio più doloroso, se avvertono che dietro c’è amore. Aveva ragione Giovanni Bollea quando affermava che “Le madri non sbagliano mai.” Quando sono madri, non semplicemente donne che hanno avuto un figlio.