Appunti di pratica filosofica (II)

 Fulvio Sguerso

“La pratica del dialogo filosofico in una ‘comunità di ricerca’ è connotata da una forte valenza sociale ed etico-politica; si propone come esercizio di cittadinanza attiva e responsabile e come via per dare corpo e sangue alla ‘democraticità’ nella sua doppia determinazione etica ed epistemologica. Così intesa, la pratica filosofica nella ‘comunità di ricerca’ tende a caratterizzarsi come aiuto a conquistare punti di vista ‘altri’ rispetto a quelli ordinari, a sviluppare confronti critici rispetto alle meta-cornici che, inglobandoci e imponendoci le loro logiche come condizioni a-priori, si rendono invisibili allo sguardo ordinario. Se intesa in questo senso la filosofia, anche quando vorrà presentarsi come consulenza, non può promettere felicità e benessere a nessuno. L’unica cosa che può fare è curare dall’aspettativa della felicità a buon mercato, curare dal conformismo e dalla acquiescenza alle mode e alla chiacchiera “. (Antonio Cosentino, Filosofia come pratica sociale, Editore Apogeo, 2008).  Questa idea della filosofia come “cura” non è certo nuova, basti pensare al quadrifarmaco di Epicuro come rimedio efficace ai mali che affliggono l’uomo: 1) non sono da temere gli dei, in quanto vivono la loro vita beata e non si curano di noi mortali; 2) la morte non è da temere: finché ci siamo noi lei non c’è, e quando c’è lei non ci siamo più noi; 3) il piacere, correttamente inteso, è alla portata di chiunque; 4) infine il male: se è acuto, dura poco, se invece dura a lungo, significa che è sopportabile. Ma l’imperturbabilità degli epicurei (atarassia) assomiglia più a una fuga che a una accettazione della vita con le sue gioie e  le sue pene, e una vita senza più passioni e i cui piaceri consistono nella mancanza di dolore non pare proprio, si direbbe oggi, il massimo della vita. Diverso è il discorso sui limiti e sulle possibilità, su ciò che è ragionevole e ciò che non lo è, sulle cose che dipendono da noi e su quelle che eccedono dal nostro potere. Una delle funzioni della pratica filosofica è proprio quella di far riconoscere le illusioni e le false credenze su noi stessi e sul prossimo, illusioni e credenze che magari ci consolano, ma che di certo non ci aiutano a vederci e a considerarci non per quello che crediamo o vorremmo essere, ma per quello che veramente possiamo essere. E per questo non è sufficiente il senso comune: senza il pensiero critico, cioè il dubbio metodico che metta in discussione tutte le nozioni e le credenze acquisite, non ci rimarrebbe che accettare le opinioni maggioritarie nel nostro ambiente sociale, e adeguarci alla verità del più forte, non alla forza della verità. Dunque, o come pratica o come disciplina, come indagine e definizione del vero, del bello e del buono o come tentativo di chiarificazione del senso della nostra vita, sembra proprio che philosophari necesse sit. Il sorprendente e crescente successo delle occasioni in cui il grande pubblico non specializzato gremisce le sale o le piazze per ascoltare la lectio magistralis di questo o quel filosofo famoso è lì a dimostrare la perenne vitalità della febbre d’amor platonico per il sapere disinteressato, o meglio, di quel sapere che ci riguarda più da vicino in quanto esseri umani; febbre contagiosa quant’altre mai, se solo i “portatori sani” di questa mania (follia) riusciranno a comunicarla, a trasmetterla, a condividerla con chi ancora si ritiene immune o indifferente riguardo a questa specie di amore. Inoltre, questo amore per il sapere, anche per il sapere puro e assoluto, non è che non abbia le sue ricadute nella prassi, cioè nella nostra vita quotidiana e nel nostro orientamento nella storia e nel mondo: date le nubi minacciose che si addensano all’orizzonte della storia in cui ci troviamo a vivere e di cui siamo, o dovremmo essere e consapevoli e sentirci responsabili; e del mondo che i maggiori pensatori contemporanei, da Heidegger, a Jonas, ad Habermas cosiderano a rischio di estinzione per eccesso di “razionalità” meccanica e tecnologica. La morte di Dio annunciata da Nietzsche rischia di trascinare con sé anche l’uomo: il Dio della tecnica non sembra in grado di salvarlo dall’alienazione di cui parlavano, sia pure in sensi diversi, Hegel, Feuerbach e Marx.  Eh sì, oggi più che mai c’è bisogno di febbre filosofica “per tutti”.

2 pensieri su “Appunti di pratica filosofica (II)

  1. “…senza il pensiero critico, cioè il dubbio metodico che metta in discussione tutte le nozioni e le credenze acquisite, non ci rimarrebbe che accettare le opinioni maggioritarie nel nostro ambiente sociale, e adeguarci alla verità del più forte, non alla forza della verità.”
    Quanto Lei afferma ,prof. Sguerso,è di una chiarezza indicutibile. Le sue parole sono tanto più veritiere oggi, se pensiamo a come vige lo strapotere di una maggioranza tutta tesa ad affermare la “verità degli opposti linguistici” e con essa la “forza del pensiero unico” , pur di garantire all’infinito la propria e indiscussa sicurezza e i propri privilegi.Tale strapotere, basato sulla forza di un linguaggio destrutturato nella sua funzione semantica, è possibile proprio a causa di una diminuita forza e capacità del PENSIERO CRITICO nella ns. società. Esso sembra aver abbandonato l’italiano medio, aiutato in questo suo svuotamento cerebrale, dall’ipnotica funzione dei mass-media, in particolar modo della televisione, facendolo scivolare lentamente nell’abbraccio letale della “verità del più forte”, permettendogli di disconoscere via via la “FORZA DELLA VERITA'” a favore dell’affermazione della FORZA DELLA MENZOGNA!
    Pertanto possa la cura della Filosofia diffondersi a macchia d’olio, ma credo che ormai ci si trovi ad un livello così avanzato e terminale di questo processo degenerativo,che può essere efficace solo l’intervento di un miracolo…!(checchè si dica del pensiero critico!).
    Corsiali saluti!

  2. Certo: conformarsi è più facile che informarsi per formarsi un’opinione “critica” (dal greco “krino” , che significa “giudico, distinguo”). Ma per giudicare e distinguere il vero dal falso, i fatti dalla propaganda, l’illusione dalla realtà, ecc. non è possibile senza quella che i greci chiamavano “epistème”, cioè “conoscenza vera”. E qui si apre una complessa questione pedagogica, etica e politica: quanti sono in grado di accedere alla “conoscenza vera”? Per Platone, ad esempio, pochissimi; per Epicuro, invece, tutte le persone di buona volontà, senza distinzione di età, di sesso o di classe sociale. Oggi, in teoria, tutti i “capaci e i meritevoli” possono accedere al sapere e alla scienza, ma in pratica si sono formate delle élite ristrette nei vari campi del sapere scientifico e tecnologico, tanto che si parla, ormai, di tecnocrazia più che di democrazia. Certo non tutti possono essere scienziati o ricercatori del MIT, tutti però abbiamo il diritto di non essere manipolati o colonizzati dalla telecrazia e dalla tecnocrazia globale. Il “Grande fratello” orwelliano insegni! Grazie per il commento.

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